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Venerdì, 26 Apr 2024
Laboratorio di ceramica
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Immaginetta della professione monastica - «Transfiguration of Jesus» di Paulina Krajewska, 2017

Sabato 6 agosto 2022, Solennità della Trasfigurazione del Signore, il nostro fratello Davide Castronovo, originario della Diocesi di Milano (Assago), al termine del cammino di formazione ha emesso la sua Professione solenne. La messa di consacrazione è stata presieduta da mons. Mario Delpini, vescovo di Milano. Presenziavano la celebrazione altri due vescovi, Sua Emin.za Card. Ejik, vescovo di Utrecht, presente in comunità come ospite e sua Ecc.za Mons. Luigi, già vescovo ausiliare dell'Arcidiocesi ambrosiana. Anche numerosi sacerdoti diocesani, frati cappuccini e monaci di comunità amiche hanno arricchito la celebrazione con la loro preghiera ed amicizia. A otto anni dal suo ingresso in monastero, fr Davide ha concluso - mediante la professione definitiva degli impegni monastici - la tappa iniziale del suo percorso ed ha manifestando pubblicamente il proprio desiderio di assumere la "via" monastica come forma propria e personale per seguire Gesù. Seguire Gesù, come discepolo ed annunciare, nella discrezione, il suo Vangelo, mediante gli strumenti della ricerca del suo Volto, della preghiera continua, della ritiratezza che si adopera al "primato" di Dio.

Saluto iniziale di fr Luca Fallica, priore

Omelia di Sua Ecc.za mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano

Ringraziamento di fr Davide al termine della Messa

E-mail a tutti i conoscenti che non hanno potuto presenziare alla liturgia

SECONDA PARTE DEL TEMPO ORDINARIO

La Parola dell'ottavo giorno - Corpo e Sangue del Signore (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - XIII Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - XV Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

TEMPO DI PASQUA

La Parola dell'ottavo giorno - II Domenica di Pasqua (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - III Domenica di Pasqua (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - IV Domenica di Pasqua (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - V Domenica di Pasqua (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - VI Domenica di Pasqua (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Ascensione del Signore (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Pentecoste (C) - PDF

TEMPO DI QUARESIMA

La Parola dell'ottavo giorno - I Domenica di Quaresima (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - II Domenica di Quaresima (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - III Domenica di Quaresima (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - IV Domenica di Quaresima (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - V Domenica di Quaresima (C) - PDF

PRIMA PARTE DEL TEMPO ORDINARIO

La Parola dell'ottavo giorno - II Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - III Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - IV Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - V Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - VI Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - VII Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - VIII Domenica del Tempo Ordinario (C) - PDF

TEMPO DI AVVENTO E DI NATALE

La Parola dell'ottavo giorno - I Domenica di Avvento (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - II Domenica di Avvento (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - III Domenica di Avvento (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - IV Domenica di Avvento (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Natale del Signore (notte) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Natale del Signore (giorno) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Santa Famiglia (C) - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - II Domenica di Natale - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Epifania del Signore - PDF

La Parola dell'ottavo giorno - Battesimo del Signore (C) - PDF


Rubrica di commenti iconografici.

IL NOSTRO PICCOLO PATRIMONIO


Una collezione di icone? Quando parliamo di icone l’espressione “collezione” rischia un po’ di ridurre quello che è l’oggetto in questione. Le icone non si collezionano, ma fanno parte di un mondo legato alla preghiera e alla liturgia e dunque lo spazio adeguato in cui “incontrarle” è quello della preghiera. Tuttavia quando si tratta di icone antiche è inevitabile che queste vengano trattate e raccolte in modo diverso. L’attenzione viene posta sul loro valore artistico o storico e, di conseguenza, possono effettivamente far parte di una collezione.

La nostra “collezione” si è formata in modo non sistematico, fortuito. A parte alcune icone portate direttamente dalla Russia, il grosso della collezione fa parte di una donazione fatta da una signora di Verona, oggi defunta, Dushka Avrese. Docente di russo alla Università di Padova, aveva una vera e propria passione per le icone. La sua collezione è molto ampia con più di mille icone e soprattutto molto ricca, non tanto per l’antichità, quanto per la varietà dei soggetti iconografici. Purtroppo dopo la morte della proprietaria questo migliaio di icone è andato disperso, e questa è forse una delle cose più tristi della storia di questo patrimonio religioso e artistico. Prima di morire ci ha regalato una trentina di icone che ho scelto io tra quelle della sua collezione. Si era creata una lunga amicizia con la professoressa Dushka (era veronese ma aveva questo nome russo che le era stato dato da piccola. Significa “piccola anima”). Già dai tempi di Praglia eravamo entrati in contatto. Aveva infatti prestato alcune sue icone per una mostra all’abbazia di Praglia nel 1988 e poi avevamo ripreso i contatti negli anni ’90. Con lei si sono fatte 3 mostre di opere della sua collezione: a Seregno, a Como e a Verona. Si è sfruttata la varietà di soggetti iconografici per costruire un percorso spirituale-liturgico.

Iconografi e scuole iconografiche. Le nostre icone sono russe. La maggior parte è del XIX secolo, anche se alcune potrebbero essere del secolo XVIII. Tuttavia è molto difficile datarle perché i soggetti e i canoni iconografici si ripetono: si possono piuttosto identificare dalle scuole o dalle regioni di provenienza. Alcune vengono per esempio dalle scuole iconografiche dei Vecchi Credenti (scisma interno alla chiesa ortodossa russa, avvenuto nel secolo XVII a seguito delle riforme liturgiche del patriarca Nikon); questi riproducevano i canoni antichi, fedeli ai modelli dei secoli XV-XVI. Altre icone, invece, nella loro composizione e nelle loro forme tendenti al realismo, hanno un influsso occidentale, con uno stile più accademico e sono databili alla fine del secolo XIX. Le scuole si riconoscono in base ai colori, all’uso dell’oro o alle forme. Ad esempio alcune sono molto popolari e devozionali, fatte anche su serie: in questi casi vengono usati pochi colori che spesso giocano sull’ocra, colore tra i meno pregiati. Altre sono invece molto curate e provengono da atelier che lavoravano per chi poteva permettersi icone più raffinate. Le più grandi hanno in genere una provenienza ecclesiastica.

Le nostre icone sono quasi tutte della Russia centrale, dove c’erano monasteri e villaggi che erano “specializzati” nel dipingere icone. Ad esempio i villaggi di Palech e Mstëra producevano icone molto raffinate, con soggetti compositi, quasi delle miniature. Nel villaggio di Vetka invece vi era una scuola dei Vecchi credenti: le icone di questa scuola sono distinguibili per l’uso abbondante dell’oro e dei colori vivaci.

La bellezza di un’icona. Quale è il valore estetico di un’icona? Il criterio di bello, così come noi lo intendiamo a partire da una sensibilità legata all’arte occidentale, è difficilmente applicabile ad un’icona. Dipende molto dal soggetto che può essere più o meno evocativo, dalle forme, dal linguaggio simbolico, dai colori. Se dovessi scegliere un’icona della nostra collezione e definirla “bella”, soprattutto in riferimento alla raffinatezza dell’esecuzione, sceglierei quella che rappresenta l’Anno liturgico con le sue 12 grandi feste cristologiche che attorniano e fanno da cornice alla Pasqua. Ognuna è come una piccola miniatura che rappresenta la festa liturgica celebrata. Un'altra icona molto interessante è quella che rappresenta il testo liturgico “O unigenito Figlio di Dio”, in cui sono ripresi alcuni simboli e soggetti dell’Apocalisse. La trovo molto precisa nell’esecuzione. Significativa, soprattutto da un punto di vista agiografico e spirituale, è quella che raffigura San Serafino di Sarov attorniato dalle scene della sua vita. Sebbene sia molto recente (Serafino è stato canonizzato nel 1903) è affascinante perché naif ed espressiva, nelle scene che rappresentano i vari passaggi della vita del santo e nel modo di raffigurare la natura del paesaggio russo.

Icone e preghiera. Alcune di queste icone vengono usate nella liturgia comunitaria, per esempio quella che rappresenta le 12 feste, quella del Battista con le scene della sua nascita e del suo martirio, quella di Maria Egiziaca. È un modo per renderle vive e ridonare ad esse il loro significato originario. Altre sono più difficilmente utilizzabili perché hanno come soggetto quelle di feste o santi che non compaiono nel nostro calendario. Ad esempio l’icona “O unigenito Figlio di Dio” fa riferimento ad un testo della liturgia bizantina ed è meno collocabile all’interno di una nostra celebrazione liturgica. Tra l’altro questo tipo di icone ha una funzione catechetica: sono icone complesse, che creano una sintesi teologico-iconografica, sono ricche di simboli con riferimenti alla Scrittura, all’innografia e ai Padri.

È interessante notare che ogni fratello della comunità di fronte a queste icone manifesta un atteggiamento diverso. Ciascuno ha una sua sensibilità soprattutto in relazione alla preghiera: alcuni si soffermano davanti ad esse per contemplarle, altri le portano in cella per pregare davanti ad esse, altri invece no.

Una “collezione” in crescita? È normale che una collezione si arricchisca di nuovi soggetti, ma per quanto riguarda la nostra raccolta dobbiamo precisare che essa è anzitutto un dono e non frutto di un sistematico collezionismo! Ben al di là del collezionismo è importante sapere che ogni icona è un tesoro prezioso per un fedele ortodosso e quindi un fedele si relaziona ad essa attraverso la preghiera. Così ognuna ha una storia sacra! In Russia quando una famiglia non era più credente o non poteva più esprimere la sua fede conservava comunque le icone perché erano la memoria storica della famiglia.

Nella nostra collezione non ci sono icone di iconografi contemporanei, anche perché di fatto nel nostro monastero c’è una scuola iconografica. Nel monastero di Bose, ad esempio, è esposta una bella collezione di iconografi contemporanei, il che permette di vedere gli sviluppi e le varie scuole.

Cronaca. Ricordare e ringraziare.

DALL'AVVENTO ALLA QUARESIMA


- I primi giorni di dicembre sono stati caratterizzati dalle prime abbondanti nevicate (venerdì 4 ne è scesa tra gli 70 e gli 80 cm!) e quindi anche dal conseguente lavoro di sgombero della neve dalla strada da parte del nostro fratello Lino, che non ha tardato un minuto per mettersi all’opera.

- Domenica 13 dicembre, dopo la fine del lockdown regionale (la Lombardia era infatti una delle regioni a “zona rossa”), abbiamo potuto riaprire la foresteria e subito sono arrivati i primi ospiti.

- Mercoledì 16 dicembre, il nostro fratello Luca Pardi ha iniziato il periodo di noviziato nella nostra comunità. Il breve rito liturgico si è svolto durante l’ora di Sesta in un’atmosfera sobria e gioiosa. Per problemi di omonimia (ricordiamo che anche il nostro priore si chiama Luca) ha voluto aggiungere al nome di battesimo quello di “Martino”, in ricordo del santo monaco e vescovo di Tours, uno degli iniziatori della vita monastica in Occidente.

- Dopo più di trent’anni che il nostro caro fratello Ildefonso si cimentava nella preparazione del presepio nell’imminenza del Natale con grande cura e passione – e una vera arte! –, quest’anno l’allestimento è stato affidato ai nostri due fratelli Elia e Martino, i quali – utilizzando materiale in parte già disponibile – sono riusciti ottimamente nell’impresa, non sfigurando di fronte al loro predecessore e facendo onore alla lunga tradizione “ildefonsiana”.

- Il periodo natalizio (dalla vigila di Natale all’Epifania) è di nuovo trascorso senza ospiti a causa delle restrizioni anti-Covid. Solo il nostro parroco, don Nicola, ha potuto condividere con noi qualche giorno e anche il diacono permanente Giorgio e la moglie Miriam hanno accettato il nostro invito per partecipare al pranzo di Santo Stefano insieme con noi.

- Invece martedì 29 dicembre abbiamo avuto ancora la gioia di avere tra noi Lidia Maggi e Angelo Reginato, i due pastori della Chiesa Battista residenti da qualche anno a Dumenza e che prestano il loro servizio in alcune comunità della provincia di Varese e del Ticino. È stata una bella occasione di fraternità e di scambio reciproco su alcuni temi ecclesiali comuni ad entrambe le confessioni, e anche un momento per ravvivare un’amicizia ecumenica significativa.

- Tra Natale e l’Epifania è scesa ancora molta neve creando qualche disagio per la strada, ma non facendo pressoché nessun danno all’abitato. Il nostro fratello Lino ha dovuto fare gli straordinari in quei giorni per tenere pulita la strada e la zona adiacente al monastero!

- Lunedì 1° febbraio 2021, vigilia della festa della Presentazione del Signore, tutta la comunità ha partecipato alla celebrazione eucaristica svoltasi ad Agra, nella chiesa delle Monache Romite. È una bella tradizione cominciata qualche anno fa nell’intento di riunire le comunità religiose presenti nel decanato di Luino per un momento di preghiera da vivere insieme nella giornata dedicata alla Vita Consacrata. L’eucaristia è stata presieduta dal parroco di Luino e decano in carica don Sergio, mentre la nostra comunità con le monache Romite si è assunta il compito di animare la liturgia. Alle altre comunità presenti nel Decanato, cioè le suore della Congregazione di santa Marta presenti a Roggiano, e alle laiche consacrate dell’OPAR di Germignaga, sono state affidate la proclamazione delle letture e l’animazione della preghiera dei fedeli.

- Il giorno dopo, martedì 2 febbraio, nella già ricordata festa della Presentazione del Signore, durante i Vespri, il nostro fratello Rupert ha emesso la sua prima professione nella nostra comunità. Naturalmente, a causa delle vigenti restrizioni per la pandemia ancora in corso, la celebrazione ha avuto una partecipazione limitata, anche se nulla è mancato perché la liturgia fosse vissuta da tutti con decoro, fervore e intensità.

- In questi primi mesi dell’anno – come del resto avviene in quasi tutta la nostra penisola italiana – gli incontri previsti e i corsi di formazione si sono svolti pressoché tutti nella modalità “da remoto” e quindi anche gli spostamenti dei singoli fratelli si sono di molto ridotti. L’ospitalità, nei limiti delle restrizioni imposte dai diversi colori della Lombardia, sta proseguendo, anche se un po’ a intermittenza.

- Il tempo quaresimale è iniziato nella memoria dei difficili giorni dell’anno passato (tra qualche settimana ricorderemo infatti i primi contagi avvenuti in comunità, il successivo periodo di quarantena e soprattutto la morte del nostro caro fratello Ildefonso) e nella maturata consapevolezza che anche questo periodo della nostra vita è stato segnato dalla grazia di Dio e dalla sua sapiente pedagogia, che sa trarre da tutto ciò che ci capita un bene ulteriore e un motivo di crescita nella comunione e nella santità della vita.

Vita nascosta: un film di Terence Malick

Che differenza fa una goccia di bene in un oceano di male? A che cosa serve? Chi la vede? Chi nota il suo cadere e il suo dissolversi nell’oceano? Che senso ha, allora, versarla? Un semplice gesto gentile, compiuto nel mezzo di una guerra mondiale; un piccolo seme caduto, per sbaglio, sull’asfalto, calpestato, spaccato e morto, che senso ha? Quando, facendo il bene, non cambia nulla, ma proprio nulla, nel contesto di male in cui ci si trova, perché farlo? Per chi?

Ecco alcune delle domande che ci suggerisce Terrence Malick mentre guardiamo il suo ultimo capolavoro La vita nascosta (un film del 2019, con August Diehl e Valerie Pachner). È la storia del beato Franz Jägerstätter, un contadino austriaco e obiettore di coscienza, che viene ghigliottinato, il 9 agosto 1943, per essersi rifiutato di giurare fedeltà al Führer.

Il film evidenzia il forte contrasto fra la nascosta, silenziosa, ordinaria e quasi banale vita di Franz e della sua famiglia, e la gigante e assordante figura del male, rappresentata da Hitler e da tutto il contesto di guerra in quel periodo. E così ritorno alle domande con cui ho aperto questo articolo: che senso ha il bene, quando viene schiacciato dal male, quasi distrattamente, come se fosse una minuscola formica sotto la suola di un passante? Le risposte, Malick non le dà. Anzi, proprio alla fine della pellicola, sentiamo Fani, la moglie di Franz, dire: “Un giorno capiremo il motivo di tutto questo, e non ci saranno misteri… sapremo perché viviamo… ci ritroveremo, coltiveremo alberi da frutto, campi, daremo nuova vita alla terra… Franz, ci ricongiungeremo lì, tra le montagne”. Da bravo filosofo, Malick, nei suoi film, non dà risposte, al contrario suscita domande, semina curiosità e coltiva speranze.

La vita nascosta ci fa vedere la fragile forza del bene di fronte, o meglio, dentro un male potente e illogico. Dirò di più, La vita nascosta cela pure il bene, come il tesoro è nascosto nel ventre della terra e la perla nel cuore del mare, e tocca agli spettatori cercarlo e trovarlo nel profondo di una realtà coperta di malvagità.

Questo bene si può vedere in tanti gesti di tenerezza che costellano il film. Ad esempio, quando Franz è condotto in manette da un membro delle SS che lo sta portando da una prigione all’altra, aiuta una signora a sistemare la sua valigia in treno, oppure sistema l’ombrello caduto davanti a un bar. In un’altra scena assistiamo a Franz che viene pestato brutalmente da una guardia SS, ma subito dopo la testa di Franz è appoggiata sulla spalla della moglie Fani che l’accarezza con infinita delicatezza.

Scrivo queste poche righe sul film invitandovi a fare un gioco, il gioco di cogliere tutti i gesti di cura, di bene, di gentilezza che potete trovare in questa pellicola. Non vorrei scrivere altro o svelare di più. La vita nascosta è un titolo che ben si addice a questo film. Pensate alle cose che nascondete e della ragione per cui lo fate. Normalmente, copriamo o veliamo le cose più care e preziose; a volte nascondiamo le cose di cui ci vergogniamo, che rivelano di noi verità che vorremmo restassero segrete. In altre circostanze, le due cose coincidono: vergogna e preziosità, pudore e valore. Vi invito a fare questo gioco mentre guardate La vita nascosta. Esercitate la vostra capacità di scorgere il bene là dove vedete solo il male. Il regista Malick vuole dirci che il bene non può essere mai del tutto annientato, che il male non riuscirà a soffocare completamente il seme del bene… Malick, giocando con i proverbi popolari, direbbe: l’erba buona non muore mai.

Se anche il film termina (non vi svelo come!!), la vita continua a interpellarci dicendo: continuate a giocare! Seminate il bene, anche se è poco, debole, silenzioso, insignificante; cogliete il bene, anche se invisibile, fragile e marginale. Non permettete che il male v’indurisca; non cadete nel disincanto e nella disillusione; non invidiate nessuno, non gonfiatevi, non mancate di rispetto, non pensate solo ai vostri interessi, non arrabbiatevi; che la vostra vita non giri attorno al male che state subendo, ma sia la verità a guidare i vostri passi e a illuminare il vostro sguardo… continuate ad amare, a credere nell’uomo, a portare pazienza, a sperare e a credere nel bene! Tutto sparirà, TUTTO… resterà solo l’Amore (cfr. 1Cor 13,1-13).

Buona visione! (fr Elia)

Le Romite Ambrosiane a Santa Maria del Monte di Varese

Ringraziamo di cuore la comunità benedettina di Dumenza che con spirito fraterno ci ha invitate ad offrire ai lettori una presentazione della nostra vita monastica sulle pagine di questa loro bella rivista.

Chi sale al nostro monastero provenendo da Varese, ma anche da altri paesi circostanti, rimane conquistato dalla visione d’insieme che gli si para davanti prima di imboccare la salita del Sacro Monte. Si tratta della bellezza luminosa di un borgo abbarbicato sulla sommità rocciosa del monte, affascinante per la sua compattezza, frutto dell’accostarsi armonioso di forme diverse, rispettose delle possibilità che la montagna offriva loro. Difficile immaginare che quell’intreccio di muri, finestre e soprattutto tetti ospiti un monastero, impossibile capire dove finisca il borgo e dove abbia inizio la nostra casa. Solo una volta arrivati a Santa Maria del Monte si può intuire che a fare da confine, o meglio da ponte di collegamento, tra il paesino e il monastero è il Santuario mariano che con il suo bellissimo campanile da secoli veglia sul borgo, sul monastero e sulla fede di tantissimi pellegrini.

Molto della nostra storia e del messaggio di vita che lo Spirito ha seminato in essa è scritta nella roccia di questo luogo che ci ospita da più di cinque secoli, da quando cioè Caterina da Pallanza, la nostra fondatrice, lasciò Milano - dove aveva trovato rifugio dopo la morte di quasi tutta la sua famiglia a causa della peste - per salire sul monte in obbedienza ad un preciso invito del Signore che una notte le apparve in sembianza di Crocifisso e le disse: «Caterina io voglio che tu vada a Santa Maria del Monte», così riporta l’antico codice che custodisce la storia della beata Caterina (riportiamo in corsivo le citazioni, tradotte dal volgare in lingua corrente, tratte dalle antiche biografie di Caterina e Giuliana, conservate nel nostro archivio e pubblicate nel volume Mirabile Ydio ne li sancti soi, Lativa 1981).

Alla metà del 1400 Santa Maria del Monte era meta di numerosi pellegrinaggi che da varie zone salivano al santuario dove il culto alla Vergine Madre di Dio era vivo già da molti secoli.

All’arrivo di Caterina, però, gli anfratti rocciosi del monte non erano percorsi solo dai pellegrini, ma ospitavano da tempo una colonia di eremite che Caterina visitò più di una volta venendo a conoscenza di una forma di vita che le accese fortemente nell’animo la volontà di finire i suoi giorni in questo luogo. Ancora una volta il flagello della peste precedette il suo desiderio di vita: le eremite, colpite dal male, morirono lasciando ancor più desolato il luogo e Caterina, ammalatasi anch’essa, dovette tornare a casa.

Tuttavia, l’affidamento a colui che solo può percuotere e risanare e la ritrovata salute spinsero Caterina a fare ritorno a Santa Maria e a stabilirvisi definitivamente: era il 24 Aprile del 1452.

Ripensare gli inizi della nostra storia in questo tempo di pandemia ce li fa sentire quanto mai vicini e ci consente di indugiare su alcuni aspetti degni di nota. In particolare ci piace contemplare i primi gesti di Caterina all’ingresso nell’eremo dove ogni cosa era in disordine e dissestata a causa della morte delle eremite e nel quale la nostra Beata come brava massaia si mise a riordinare il suo alloggio, spazzando l’immondizia che vi era e adornando quell’eremitaggio(…) di pazienza e di animo costante nel sopportare ogni bisogno e necessità per amore di colui il quale, pur essendo il Re della gloria, si umiliò assumendo forma di servo per la nostra redenzione.

Un gesto di cura semplice e tenace fu la risposta di Caterina al disordine e alla morte che il contagio aveva procurato, o meglio si potrebbe dire che la pazienza e l’animo costante di Caterina furono la risposta di Dio che ancora si rendeva presente in quel tempo doloroso: Mirabile è Dio nei suoi santi!

Da allora sino ad oggi molta storia è passata: l’esperienza solitaria degli inizi nello spazio di alcuni decenni si mutò, con l’arrivo delle prime cinque compagne, in vita cenobitica secondo le costituzioni dell’antico ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus e con l’assunzione della regola di Sant’ Agostino; il piccolo eremo crebbe e la comunità cominciò a coltivare quel luogo roccioso e impraticabile per renderlo ospitale e adatto alla vita.

Il carisma della nostra piccola, ma antica famiglia monastica è tutto scritto in questo inizio dove si intrecciano solitudine e comunione fraterna, cura per quella piccola parte del creato che ci è toccata in sorte e soccorso ai pellegrini di tutti i tempi che hanno trovato e ancora trovano presso il monastero soccorso materiale e soprattutto consolazione e intercessione. A ciò si unisce un profondo legame con la diocesi di Milano con la quale, sin dagli inizi, condividiamo la celebrazione della liturgia secondo il rito ambrosiano - che presso la nostra comunità risuona attraverso le modulazioni dell’antico canto ambrosiano - e il riferimento al prezioso magistero di Sant’Ambrogio, amato come padre e maestro di vita cristiana.

Attualmente la nostra comunità si compone di 28 sorelle, di cui una professa di voti temporanei e due novizie. Insieme cerchiamo, tra le molteplici sfide che l’attualità ci offre, di ricominciare ogni giorno, con semplicità e tenacia, da quella cura per la vita che in ogni tempo manifesta il volto del Padre che ha creato il mondo con la semplicità del suo amore e lo ha redento con la tenacia del Figlio suo crocifisso.

UNA NUOVA RUBRICA SULLA LITURGIA IN COMUNITÀ

L’intento di questa nuova rubrica che proponiamo ai nostri lettori è quello di condividere, in modo semplice e diretto, alcuni aspetti della preghiera liturgica così come si è andata caratterizzando nella nostra comunità. Se ogni preghiera liturgica è sempre preghiera della Chiesa, ed è dunque celebrata nella comunione con tutta la Chiesa e come partecipazione alla preghiera stessa di Gesù che si rivolge al Padre nella potenza dello Spirito, ogni comunità ha però la possibilità di compiere alcune scelte che riguardano le modalità concrete attraverso le quali questa preghiera viene vissuta. In questo numero partiamo cercando di offrire uno sguardo sul modo in cui la nostra comunità vive il tempo forte della Quaresima: abbiamo chiesto ad alcuni fratelli che hanno cura più direttamente dell’animazione liturgica della comunità di rispondere ad alcune domande…

 

 

Quali sono le particolarità liturgiche cha caratterizzano il tempo di Quaresima nella vostra comunità e quali aspetti di questo tempo liturgico particolare sottolineano?

San Benedetto, nella Regola, chiede di vivere la Quaresima attendendo la Pasqua con la gioia del desiderio suscitato dallo Spirito. Il tempo quaresimale assume così, secondo la grande tradizione ecclesiale, non tanto il significato di una “preparazione” alla Pasqua, quanto di un celebrare già il mistero pasquale (che è sempre al cuore di ogni liturgia) nella forma dell’attesa e del desiderio. È un itinerario battesimale anche per chi il battesimo lo ha già ricevuto, per consentire al battesimo di rimanere fecondo nella propria esistenza, continuando a generare quella vita nuova che scaturisce dalla Pasqua. Per questo motivo scegliamo di non appesantire eccessivamente questo tempo con una molteplicità di momenti o tempi di preghiera diversi da quelli già proposti dalla liturgia. La Preghiera delle Ore e la celebrazione eucaristica ci offrono già un sapiente itinerario. Il problema è come viverlo con consapevolezza, accoglierlo, interiorizzarlo nella sua ricchezza.

Qualche sottolineatura comunque la facciamo. Oltre la preghiera del Canone di sant’Andrea di Creta, di cui parla fr Adalberto, concludiamo il Vespro con la preghiera quaresimale attribuita a sant’Efrem, che i nostri fratelli e sorelle ortodossi pregano più volte al giorno nel tempo quaresimale, accompagnandola con profonde prostrazioni. Anche noi la preghiamo inginocchiati, con il capo a terra, per significare, attraverso il movimento di un corpo che si prostra e si rialza, la nostra partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù. La preghiera chiede a Dio di togliere da noi lo spirito di ozio, scoraggiamento, brama di potere e vano parlare, per donarci uno spirito di castità, di pazienza, di umiltà e di amore. Educa così al combattimento spirituale e al discernimento degli spiriti, per accogliere il dono del Paraclito che ci fa camminare con gioia e desiderio verso la Pasqua.

Un altro momento qualificante è la preghiera di terza del venerdì, incentrata sulla contemplazione del Crocifisso. Nell’ultimo venerdì, prima delle Palme, al suo posto viviamo la prima parte di una celebrazione comunitaria della riconciliazione che si conclude, dopo le confessioni individuali, con una celebrazione di ringraziamento nel giovedì santo, giorno nel quale la Chiesa antica riconciliava i peccatori dopo il cammino penitenziale.

Ogni anno scegliamo un testo biblico da leggere per lo più integralmente durante le Vigilie. Quest’anno, accogliendo l’invito dell’Arcivescovo nella sua proposta pastorale, ascolteremo testi sapienziali: il Qoelet nella sua integralità e un’ampia selezione dal Siracide.

Un’ultima considerazione: accogliamo nella nostra liturgia, come in altri tempi dell’anno, preghiere tipiche della tradizione bizantina, come la preghiera di Efrem o il Grande Canone. La divisione tra le Chiese è una ferita dolorosa, che avvertiamo in modo più forte nel non celebrare insieme la Pasqua, nella stessa data. Accogliere queste preghiere ci fa pregustare quella comunione che speriamo, e ci fa attendere la Pasqua anche con questo desiderio dello Spirito, che ritesse comunione laddove altri spiriti gettano divisione (fr Luca).

 

 

La preghiera del Grande Canone: puoi spiegarci di cosa si tratta, qual è la sua origine e come viene pregato nel vostro monastero?

Ogni tradizione liturgica ha la sua ricchezza, ha le sue espressioni verbali o rituali che modulano o accentuano i suoi contenuti. Questo certamente non permette di mescolare le forme liturgiche o creare degli ibridi. Ma la storia insegna che le tradizioni liturgiche della Chiesa indivisa sono organismi vivi, hanno sempre “dialogato” tra loro e si sono reciprocamente influenzate. Ora con una conoscenza migliore di queste liturgie, fatto che ha permesso il superamento dell’idea di una priorità (ed esclusività) del rito romano sulle altre tradizioni liturgiche, e con una sensibilità ecumenica accresciuta, ci si sente più liberi nell’accogliere elementi o testi che provengono da altre chiese cristiane, soprattutto da quelle orientali. Le liturgie orientali hanno una ricchezza sorprendente, sia per il loro linguaggio simbolico sia per l’abbondanza di testi poetici. Uno di questi testi poetici proprio della tradizione bizantina è il Grande Canone quaresimale composto da sant’Andrea di Creta (+740). Il Canone è una particolare composizione innografica che si struttura a partire da nove odi tratte dalla Scrittura. Andrea, nativo di Damasco e vescovo di Gortina nell’isola di Creta, è uno dei grandi compositori poetico-liturgici della chiesa bizantina. Il Canone penitenziale o Grande Canone viene celebrato tutto di seguito, nelle chiese ortodosse, il giovedì della quinta settimana di Quaresima, all’ufficio di Compieta. Suddiviso in quattro parti, viene anche letto dal lunedì al giovedì della prima settimana di Quaresima. È dunque una composizione liturgica a sé stante e quindi facilmente inseribile nella nostra liturgia. Ma ciò che lo caratterizza è il contenuto. Il linguaggio è poetico e quindi molto evocativo, quasi affettivo. Il Canone si presenta come un progressivo cammino di liberazione dal peccato attraverso l’esperienza del penthos, l’esperienza di un cuore ferito da cui sgorgano le “gioiose lacrime” della compunzione. Questo cammino è nutrito e modellato dalla Scrittura: scopo del Grande Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di condurci al pentimento, non attraverso definizioni ed enumerazioni, bensì attraverso una profonda meditazione sulla grande storia biblica, che è, infatti, la storia del peccato, del pentimento e del perdono. Questa meditazione ci introduce in un mondo spirituale diverso, ci confronta con una visione totalmente differente dell’uomo, della sua vita, delle sue mete e delle sue motivazioni. Essa ristabilisce in noi il quadro spirituale fondamentale, all’interno del quale ridiventa possibile il pentimento. Il Canone inizia con queste parole: «Su quale gesto della mia vita darò inizio al pianto? Quali note scriverò a preludio di questo mio lamento? Nella tua misericordia, o Cristo, dei miei peccati dammi il perdono». Ogni tappa di questo cammino è caratterizzata da una progressione e da una apertura sempre più luminosa e liberante alla misericordia di Dio in Cristo e nutrita da un incessante penthos. Inoltre le varie tappe di questo cammino sono altrettanti temi che caratterizzano il penthos: la nostalgia del Paradiso perduto; la consapevolezza del peccato e delle passioni che abitano il cuore; la scoperta della potenza liberatrice della risurrezione di Cristo; la fiducia, l’umiltà e l’impegno ascetico che provengono da questa scoperta; e infine le lacrime, segno limpido che testimonia il passaggio dalla memoria del proprio peccato alla memoria del perdono di Dio. Sono temi che devono nutrire la nostra vita spirituale e, quindi, trasformarli in preghiera ci aiuta nel nostro cammino quaresimale. Per questo si è scelto di celebrarlo in quattro sere, al posto di compieta, durante la Quaresima. Anche se è un testo che richiede un impegno celebrativo notevole, sia per il tempo sia per l’attenzione a un linguaggio non usuale, può diventare anche per noi una ricchezza che ci aiuta ad entrare più profondamente nel mistero della conversione e nel mistero della morte e resurrezione di Cristo. E di tutto questo dobbiamo essere grati alle chiese d’Oriente (fr Adalberto).

 

 

Qual è il senso del digiuno per il cristiano di oggi?

Nella tradizione cristiana il tempo di Quaresima si contraddistingue per essere un tempo penitenziale. Attraverso alcuni strumenti propri - la preghiera, i gesti di carità e il digiuno, che sono mutuati dal Vangelo - essa intende aiutare i credenti a purificare il cuore, portandoli ad accogliere di nuovo e più pienamente, in sincerità e verità, l’amore di Dio. Infatti il cammino cristiano, in ogni tempo dell'anno ma soprattutto nella Quaresima, è relazione con il Signore, è movimento dietro a Gesù, è scelta della dinamica del perdere per ritrovare, dell’aprire il cuore per una comunione più grande.

Con lo strumento del digiuno, in particolare, la Quaresima educa i cuori - attraverso l’astinenza del corpo - a lasciare uno spazio per l’ascolto, ad abitare un vuoto. Togliersi il pane di bocca diviene simbolo della scelta di un cibo diverso, venuto dal cielo – il cibo che il Figlio di Dio ha preparato – che vale più del cibo della terra di cui si sostenta la vita materiale. Fare digiuno è quindi propedeutico ad un ascolto della Parola sentito con maggiore apertura, vissuto con maggior interesse, cercato con maggior costanza.

Non solo: togliersi il cibo di bocca è anche apprendistato alla condivisione, è rinuncia alla bramosia a favore del bene del fratello e della sorella che vivono accanto a me. È cura e custodia della vita dell’altro.

Dal punto di vista concreto la tradizione cristiana propone il digiuno in modo particolare nelle due giornate del Mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima, e del Venerdì Santo, memoria della Passione e morte del Signore. Anche gli altri venerdì di Quaresima sono indicati come giorni di magro e astinenza, dunque da vivere con sobrietà e frugalità. Per il resto della Quaresima si è imposta una pratica personalizzata che lascia alla discrezione di ciascuno la scelta di gesti educativi e spirituali in grado di promuovere o far ripartire il cammino di fede.

Nella nostra Comunità monastica vale quanto in genere affermato e richiesto dalla Chiesa: si vivono i due grandi digiuni del Mercoledì delle Ceneri e del Venerdì Santo, oltre ai propositi personali che vengono concordati, secondo la Regola, tra il monaco ed il priore. A questi si aggiungono altre due piccole pratiche comunitarie: la rinuncia al vino durante i pasti (tranne la domenica) e il digiuno o pasto frugale, il mercoledì sera. Niente di esoso, a dire il vero, ma utile a riaccogliere l’essenziale della scelta di fede (fr Pierantonio).

EDITORIALE

 

Sono ormai passati più di dieci anni dal primo numero della nostra newsletter, uscito nel Natale del 2010. In questo decennio la nostra piccola pubblicazione è cambiata ed è andata arricchendosi, sia nei contenuti sia nella veste grafica, grazie all’impegno della redazione composta dai fratelli Davide, Pierantonio, Alberto, Alberto Maria e, fino a qualche mese fa, Giovanni. È cresciuto nel tempo anche il numero dei lettori.


In questa positiva trasformazione confidiamo di non avere smarrito, ma semmai confermato e approfondito l’ispirazione originaria, che ci ha condotto a scegliere quale titolo per questo semplice strumento di collegamento e di amicizia un’espressione di san Pietro: Come pellegrini e stranieri. Nella quarta di copertina di ogni numero ricordiamo la motivazione di questa scelta: «L’apostolo Pietro scrive la sua prima lettera a coloro che sono stranieri e pellegrini (cfr. 1Pt 2,11). Nello stesso modo i monaci hanno da sempre compreso la loro condizione di viandanti, in costante ricerca del vero volto di Dio e del vero volto della persona umana. Se questa è la condizione del credente, egli sa di non poter vivere il cammino da solo. Nella loro semplicità questi fogli desiderano essere il segno di un cammino condiviso».


In effetti, rispetto all’espressione di Pietro, i due termini nel nostro titolo risultano invertiti: prima «pellegrini» e poi «stranieri». Probabilmente si è trattato di un’inversione non intenzionale, una sorta di svista generata da un citare fidandosi della memoria senza controllare il testo esatto. Peraltro, anche nel passo di Ebrei, nel quale i due termini ritornano, li leggiamo nel medesimo ordine della prima lettera di Pietro: «stranieri e pellegrini sulla terra» (cfr. Eb 11,13). La diversa successione può forse avere un senso: collocare in primo piano la condizione di pellegrinaggio che ci rende stranieri, poiché – ci ricorda sempre l’autore di Ebrei - siamo alla ricerca di una patria, di quella città che Dio prepara (cfr. Eb 11,13-16): questa consapevolezza ci impedisce di insediarci stabilmente in una terra, fosse anche quella promessa da Dio, giacché essa è soltanto un segno che ci rimanda all’oltre del progetto divino.


Stranieri, dunque, perché pellegrini, senza dimenticare che il termine greco – paroíkoi – indica comunque un essere vicini alle case, pur provenendo da altrove. Non ci si stabilisce in una terra sia perché si cerca quella futura, sia perché nessuna terra può catturarci in modo esclusivo, impedendoci la prossimità a ogni casa dove la gente vive e spera, soffre e desidera. Il desiderio della patria futura diviene allora capacità di vicinanza e di condivisione del desiderio di tutti coloro che vivono il loro cammino storico, affinché non smarriscano quell’orizzonte di speranza che noi per primi, in forza della nostra fede nella promessa di Dio, siamo chiamati a custodire e alimentare, sostenendo l’attesa di tutti. Nell’udienza generale del 26 aprile 2017, papa Francesco lo ricordava con parole lucide e sapienti:


La nostra esistenza è un pellegrinaggio, un cammino. Anche quanti sono mossi da una speranza semplicemente umana, percepiscono la seduzione dell’orizzonte, che li spinge a esplorare mondi che ancora non conoscono. La nostra anima è un’anima migrante. La Bibbia è piena di storie di pellegrini e viaggiatori. La vocazione di Abramo comincia con questo comando: «Vattene dalla tua terra» (Gen 12,1). E il patriarca lascia quel pezzo di mondo che conosceva bene e che era una delle culle della civiltà del suo tempo. Tutto cospirava contro la sensatezza di quel viaggio. Eppure Abramo parte. Non si diventa uomini e donne maturi se non si percepisce l’attrattiva dell’orizzonte: quel limite tra il cielo e la terra che chiede di essere raggiunto da un popolo di camminatori.


Può sembrare fuori luogo che dei monaci parlino di via, di pellegrinaggio, di migrazione, poiché la loro vita si svolge in un piccolo fazzoletto di terra, nel quale li pianta il loro impegno di stabilità, che certo non può essere ridotto a una mera stabilitas loci, ma neppure ne può prescindere. Tuttavia, condizione essenziale per vivere bene la stabilità sta proprio nel mettere stabili radici in un terreno, ma per consentire all’albero di crescere e di alzarsi verso il cielo, in alto, e di allargare i suoi rami e le sue chiome verso un vasto orizzonte, così da consentire agli uccelli del cielo di fare il nido tra i suoi rami e di trovare ristoro alla sua ombra.


Nel tempo quaresimale questo pellegrinaggio assume i tratti peculiari di un esodo da una terra di schiavitù per entrare in una terra di libertà. Non è però soltanto questo il senso del cammino di Israele. È anche cammino di fraternità, poiché non si può entrare nella terra dei liberi figli di Dio se non lo si fa da fratelli e sorelle riconciliati. Nel deserto un’accozzaglia di tribù diverse viene pazientemente educata da Dio fino a formare un solo popolo. A eccezione di Giosuè e Caleb, nessuno di coloro che erano usciti dall’Egitto – neppure Mosè – entrerà nella terra: lo faranno coloro che sono stati generati dal deserto e dal suo cammino. Nasciamo davvero camminando, accettando la condizione di viatori, di viandanti, di pellegrini. E nasciamo come popolo, come fratelli, imparando a fare della diversità il luogo della comunione. L’approfondimento che, in questo numero, dedichiamo alla Fratelli tutti di Francesco ce lo ricorda con decisione. Concludo allora questo intervento tornando a guardare indietro, a quanto scrivevamo nel primo numero di questa newsletter, nel Natale del 2010, citando fr Christian de Chergé, che ha fatto della sua vita e della sua morte, come di quella dei suoi fratelli, un seme di fraternità che continua a portare i suoi frutti sorprendenti. Ci volgiamo all’indietro ma per guardare in avanti, per rilanciare il cammino, in una fedeltà a un’intuizione originaria che crediamo ancora feconda.


Questo tema ricorrente dell’Altro che si attende attraversa tutta la Scrittura. Si inscrive in filigrana nella trama di ciascuna delle nostre vite, segnate da incontri e da attese successive. Nell’inaudita ricchezza della sua creazione, come nella diversità degli uomini stessi, Dio ci ha preparati ad accogliere la differenza. Quest’ultima si inscrive in ogni amore come componente irrinunciabile, a maggior ragione quando tale amore si esprime e si vive a immagine stessa di colui da cui proviene. Mistero insondabile di questo Dio unico in tre Persone, dove lo Spirito crea incessantemente la differenza, anzitutto tra il Padre e il Figlio, poi progressivamente dall’uno all’altro di noi […]. Con Cristo nasce quel mondo nuovo annunciato da Isaia (cfr. Is 11,1-10) nel quale la differenza non si imporrà più come generatrice di guerra e di discordia[...]. Visione profetica di un mondo in cui il lupo e l’agnello vivono insieme [...] non di un mondo indifferenziato: la vipera resta vipera, e «il lattante si trastulla sulla buca dell’aspide» (cfr. Is 11,8) senza per questo cercare di stabilirvisi lui, o di scacciare l’altro.



fr Luca e i fratelli della comunità

Due video, editi da un amico professionista,

per raccontare la ferialità monastica

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