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Domenica, 05 Mag 2024
Laboratorio di ceramica
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La vita monastica benedettina è di tipo cenobitico, cioè comunitario. Così la desidera San Benedetto che al Capitolo I della sua Regola lo dichiara esplicitamente ritenendola, in base a considerevole esperienza, la condizione più idonea per vivere il Vangelo, nell’obbedienza a Cristo concretamente all'abate, ai fratelli e alla propria debolezza.

Infatti il presupposto di ogni cammino di sequela non vi è un'iniziativa personale, ma la chiamata del Signore che risuona nell’annuncio promosso dalla comunità cristiana: ogni cammino avviene sempre nella Chiesa con la Chiesa. Di questa spiritualità comunionale della Chiesa il monachesimo vuole essere segno. Noi fratelli di Dumenza cerchiamo, con fragilità ma sincerità, la via della comunione. Desideriamo riconoscere la misericordia di Dio che ci chiama a vivere gioiosamente, a servirci con rispetto e sacrificio, a custodire nel perdono vita di ciascuno.

Questo stile comunionale prevede tuttavia dei tempi e spazi di solitudine in cui ciascun monaco coltiva responsabilmente la propria risposta di fede alla chiamata del Signore. Si tratta di esercitare quell'habitare secum caro alla prima generazione monastica che rende ciascuno adulto e responsabile di fronte al dono che è il Vangelo per la vita di tutti. infatti la vita secondo lo Spirito nasce e si fortifica in quell'interminabile ascolto interiore dello stesso Spirito che opera in ciascuno dopo aver operato nel cuore della comunità e viceversa.


Nella Regola di san Benedetto la preghiera, in specie quella liturgica, viene definita opus Dei, opera di Dio. Un’opera alla quale, come specifica il capitolo 43, il monaco nulla deve anteporre. Un’espressione simile Benedetto la usa per ricordare, in altri due passi della Regola, che nulla deve essere anteposto all’amore di Cristo (4,21 e 72,11). Con ogni probabilità quando Benedetto scrive questi versetti ha presente il commento al Padre Nostro di san Cipriano di Cartagine, che usa un’espressione simile commentando la terza domanda: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. La volontà di Dio si ricapitola nel primo comandamento dell’amore che conferisce significato a tutti gli altri precetti. Più precisamente Cipriano scrive che è necessario «non anteporre niente a Cristo, perché Cristo non antepose niente alla nostra salvezza»; perciò bisogna «rimanere fermi nella sua carità». L’amore di cui si parla è anzitutto l’amore di Cristo per noi, al quale consegue, come risposta, il nostro amore per lui e, «fermi nella sua carità», il nostro amore per i fratelli. Anche all’opus Dei nulla deve essere anteposto perché proprio nella preghiera si accoglie l’amore di Cristo che fonda e dona significato a ogni altro gesto della nostra esistenza. cappella dumenzaPeraltro nella tradizione più antica l’espressione opus Dei indicava la vita monastica in quanto tale; più ampiamente la si può intendere come definizione della vita cristiana che è “opera di Dio” perché la si riceve da altri, o meglio da un Altro che ci raggiunge con la sua grazia creatrice. Nell’evangelo di Giovanni, nella molteplicità delle opere dell’uomo, l’opera di Dio per eccellenza, che unifica tutto il vissuto umano, è appunto il “credere”. La preghiera è questo spazio di fede e di relazione con Dio che consente di dare il giusto spessore a ogni altro ambito della vita quotidiana.

Per questo motivo nella sua giornata più volte un monaco benedettino è chiamato a interrompere altre attività e il riposo stesso per ritrovarsi insieme ai fratelli, o agli ospiti che desiderano condividere per qualche giorno il suo ritmo di vita, per celebrare l’opera di Dio, lodare il suo Nome e ricevere il suo amore che fa vivere. Questa interruzione è salutare perché ricorda che la nostra vita non dipende dall’opera delle nostre mani, ma dal dono che continuamente si riceve dalle mani di un Altro. D’altra parte le nostre mani, nel momento in cui sono riempite del dono di Dio, accolgono la sua stessa possibilità. Anziché essere consegnate a una passività inoperosa, vengono rigenerate a un’energia creativa e inesauribile. La possibilità di Dio, colui al quale nulla è impossibile, diventa la nostra stessa possibilità. L’opus Dei diviene così opus hominis nell’unità di ora et labora, preghiera e lavoro, tipica del monachesimo.

Si narra nelle tradizioni del deserto che «il padre Lot si recò dal padre Giuseppe a dirgli: “Padre, io faccio come posso la mia piccola liturgia, il mio piccolo digiuno, la preghiera, la meditazione, vivo nel raccoglimento, cerco di essere puro nei pensieri. Che cosa devo fare ancora?”. Il vecchio, alzatosi, aprì le braccia verso il cielo, e le sue dita divennero come dieci fiaccole. “Se vuoi – gli disse – diventa tutto di fuoco”» (Giuseppe di Panefisi, 7). La chiesa di vertematepreghiera è autentica quando è in grado di rimodellare nel fuoco dello Spirito santo tutto il nostro agire, simboleggiato da queste dita che diventano come fiaccole. Cambia allora il nostro modo di relazionarci non solo con Dio, ma con noi stessi, con gli altri, con i beni della terra, con gli eventi della storia. L’esaudimento più autentico della preghiera sta proprio in questo lasciarsi trasformare il cuore perché da esso possa scaturire un agire diverso e responsabile, nel senso originario del termine: risposta e corrispondenza all’opera di Dio in noi. Non anteponendo nulla alla preghiera liturgica si riceve la possibilità di non anteporre nulla all’amore di Cristo per noi e attraverso di noi per il mondo. Diventiamo autenticamente figli, perché generati sempre di nuovo dal Padre (il rinascere dall’alto di cui parla Gesù a Nicodemo nell’evangelo di Giovanni); nello stesso tempo ci si lascia da lui donare nella storia perché “figlio” è sempre colui che il Padre consegna al mondo per rivelare quanto lo abbia amato e continui ad amarlo, come Gesù ricorda allo stesso Nicodemo (cfr Gv 3,16). Mediante la liturgia non solo entriamo nella preghiera che da sempre il Figlio Unigenito rivolge al Padre nella comunione dello Spirito santo, ma accogliamo la sua stessa esistenza filiale, divenendo sempre più figli come lui è Figlio. Questa è la speranza che attende il mondo: che ci siano figli della luce e del giorno capaci di illuminare, con la loro stessa esistenza credente, le tenebre che così spesso sembrano attanagliarlo. Nella preghiera si diventa come fuoco per rischiarare e riscaldare le tante forme di disperazione disseminate nella storia. Perché si diviene segno di questo amore di Dio cui nulla deve essere anteposto perché nulla ne rimane al di fuori e tutto ne riceve senso e verità.

È il respiro della preghiera liturgica che ogni giorno una comunità monastica vive, così come l’intera Chiesa. Al mattino nell’Ufficio delle Letture ci si dispone all’ascolto della parola di Dio come primo atto della giornata. «Ogni mattina il Signore risveglia il mio orecchio perché io ascolti la sua Parola» (Is 50, 4). Essere risvegliati dalla parola di Dio significa percepire che è aurora, luce. Questa è la prima parola che Dio creando pronuncia: Dio disse e la luce fu. La Parola è aurora: orienta la vita, le indica una direzione di marcia, le dischiude un cammino. Nella preghiera di Lodi si celebra il Cantico di Zaccaria, che è anche il Cantico del Battista, di colui che è inviato davanti al Signore a preparare la sua via suscitandone l’attesa. È la preghiera dell’attesa e del desiderio. Solo chi desidera l’incontro con il Signore come un bene a cui niente deve essere anteposto sperimenta l’esaudimento della propria attesa. Al termine della giornata può allora celebrare con Maria il grande Magnificat del compimento. «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente… di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono». A Compieta ci si congeda perciò dalla giornata con un cuore pacificato perché capace di riconoscere e custodire la salvezza del Signore che anche oggi si è manifestata: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada nella pace perché i miei occhi hanno visto la salvezza». Oggi davvero l’hanno vista. La liturgia della Chiesa ci rende figli della luce, persino nella notte del mondo, perché fa luminoso il nostro sguardo, ricolmandolo dell’agire di Dio. Nella preghiera celebriamo l’opera di Dio per divenire capaci di riconoscerla presente nella storia e obbedirle nella nostra responsabilità personale.

lucernarioAccende così una luce. La tradizione ebraica tramanda una storia: un uomo si perde nel folto di una foresta. È nella notte di uno smarrimento. Cammina a lungo per poi ritrovarsi allo stesso punto di partenza, come spesso accade in un bosco fitto quando si smarrisce il sentiero. Nella sua disperazione vede d’un tratto una piccola luce, molto tenue. Nella notte della solitudine anche questo fioco chiarore diventa un’esplosione di luce. Si precipita nella sua direzione e trova un uomo con una piccola lanterna in mano. Con grande gioia gli si getta al collo ed esclama “sono salvo!”. “Oh no – gli risponde lo sconosciuto – perché anch’io mi sono smarrito come te”. “Ma non disperare – continua – perché adesso siamo insieme e possiamo cercare insieme. Possiamo riprendere il cammino: tu imparerai da me a non ripetere i miei errori così come io non ripeterò i tuoi. Ora, poiché siamo insieme, possiamo sperare una salvezza”. Allora l’uomo gli si avvicina, guarda in volto lo sconosciuto e si accorge che i suoi occhi sono chiusi. “Ma tu sei cieco!”. “Sì sono cieco”. “Allora perché questa lanterna in mano?”. “La luce non mi serve per vedere ma per essere visto”.

Dio è entrato nella notte dei nostri smarrimenti per consentirci di ritrovare insieme una via di salvezza, ricordando che la luce vera che ci fa vedere non è tanto quella che illumina una strada solitaria, ma che ci consente di essere visti l’un l’altro per poter camminare insieme. Una comunità monastica, come ogni comunità ecclesiale e in essa ogni credente, nella preghiera liturgica accoglie la luce di Dio, rivelatasi in Cristo, non semplicemente per vedere, ma per divenire un segno di luce per quanti spesso a tentoni, come ciechi, sperano una salvezza. E per poterla cercare assieme a loro.

fr Luca Fallica

La comunità nasce nell’ottobre del 1989, fondata da un gruppo di dieci monaci provenienti dall’Abbazia "Santa Maria Assunta" di Praglia (in diocesi di Padova), accolti nella Chiesa di Milano dall’allora Arcivescovo, cardinale Carlo Maria Martini.

Dopo un iniziale periodo trascorso a Desio, ospiti di una casa messa a disposizione dall’Istituto secolare Cristo Re, nel luglio del 1990 la comunità si è trasferita a Canzo presso il Convento di san Francesco.

Nell’ottobre del 1993 un nuovo trasloco la conduce presso l’Abbazia di san Giovanni Battista di Vertemate. Questo trasferimento comporta anche un cambio di diocesi, perché la nuova sede è nel territorio della Chiesa locale di Como, nella quale i fratelli vengono accolti dall’allora vescovo mons. Alessandro Maggiolini.

Pur trattandosi di un antico monastero fondato nell’XI secolo dall’Abbazia di Cluny, per ragioni storiche, in particolare dopo le soppressioni napoleoniche, gli edifici monastici di Vertemate sono divenuti di proprietà privata. La comunità vi si è potuta pertanto insediare grazie a un contratto di locazione stipulato con gli attuali proprietari.

A causa di difficoltà successivamente insorte con la proprietà del monastero di Vertemate, la comunità ha deciso un nuovo trasferimento, per trovare una sede più stabile e adatta alla sua vita, individuata in una ex colonia montana sita nella località di Pragaletto, nel comune di Dumenza, in un bosco a 1000 metri sopra il Lago Maggiore, in provincia di Varese. Dopo impegnativi lavori di ristrutturazione, di adattamento e di ampliamento degli edifici, iniziati nel 2002, i fratelli si sono trasferiti definitivamente nel nuovo monastero nel novembre del 2005.

Due date sono particolarmente significative in questo ultimo insediamento. Il 12 agosto del 2002, il cardinale Martini, poche settimane prima di lasciare la guida pastorale della Chiesa di Milano, ha presieduto a Pragaletto di Dumenza una celebrazione liturgica con la benedizione di una Croce che ha avviato l’insediamento della comunità in questa nuova sede. In quell’occasione, nella sua omelia, ha ricordato il senso della presenza di un monastero in questo luogo (scarica il testo dell'omelia).

L’11 luglio del 2006, a conclusione dei lavori di ristrutturazione, il nuovo Arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, è salito a Dumenza per la benedizione del nuovo monastero.

In questi anni la comunità è stata guidata, dalla sua nascita fino all’ottobre del 2010, dal priore fr. Adalberto Piovano. Nell’ultimo Capitolo, svoltosi alla fine di ottobre dello scorso anno, non potendo più essere rieletto fr Adalberto, i fratelli hanno affidato il servizio della comunione a fr Luca Fallica.

Desio: ottobre 1989 - luglio 1990; e Canzo: 1990 - 1993

Vertemate: 1993 - 2005

Dumenza: dagli inizi (2005) ad oggi


Un suggestivo scorcio del parco del monastero

Foto della comunità monastica nel giorno della elezione del nuovo priore fr Andrea Oltolina (2 dicembre 2022)
Attualmente la comunità è formata da quattordici fratelli, di cui: 9 di voti definitivi (fr Andrea, priore, fr Nicola, fr Adalberto, fr Giovanni, fr Lino, fr Roberto, fr Pierantonio, fr Davide e fr Alberto), 3 professi temporanei (fr Alberto Maria, fr Elia, fr Ambrogio) e 1 novizio (fr Emanuele). Oltre alla preghiera (personale e liturgica), alla vita fraterna con i suoi servizi, all’ospitalità - sempre molto sentita - le altre attività lavorative consistono in un laboratorio di restauro del libro, un atelier iconografico, in numerose  collaborazioni editoriali e, ultimamente, un atelier artigianale di ceramica. Anche i lavori domestici della casa - dalla cucina alla lavanderia, alla cura degli ambienti, interni ed esterni - sono tutti affidati ai fratelli della comunità.

Il nome scelto – Comunità monastica "Santissima Trinità" – esprime il desiderio di essere, nella nostra di ricerca di Dio, mistero che riflette la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Guardando all’amore del Padre, desideriamo essere, nella gratuità, comunità di ascolto, di celebrazione, di lode. La preghiera, che scandisce la giornata e la consacra come tempo di Dio, ci pone continuamente come poveri dinanzi al mistero della salvezza gratuita di Dio che la liturgia della Chiesa celebra.

Guardando all’obbedienza del Figlio, impariamo a vivere il valore dell’incarnazione nell’attenzione alla situazione ecclesiale, sociale e culturale nella quale ci troviamo a vivere. Non siamo tuttavia preoccupati di individuare quali servizi svolgere in essa, quanto piuttosto di un inserimento profondo, attraverso l’offerta di noi stessi nella professione degli impegni evangelici e nella vita comune, nel mistero della Chiesa, che contribuiamo a edificare con la nostra vita «nascosta con Cristo in Dio».

Guardando alla comunione dello Spirito santo, impariamo l’atteggiamento della condivisione, che ci sollecita a una ospitalità fraterna, soprattutto dei più poveri e a condividere la nostra vita (lectio divina, preghiera, lavoro, fraternità), con quanti si accostano alla comunità. Inoltre, ci apriamo alla condivisione della vita degli ospiti, in ascolto e accoglienza delle loro esperienze, nelle quali trovano eco «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi». Desideriamo rimanere attenti soprattutto a coloro che domandano aiuto nel loro cammino di fede, o chiedono come cercare Dio, senza la presunzione di insegnare ciò che prima non abbiamo cercato personalmente di vivere (cfr Costituzioni, artt. 8-10).

***

Sin dagli inizi della sua storia la comunità ha maturato la scelta di un maggiore inserimento nella Chiesa locale. Sua caratteristica è pertanto quella di essere una comunità diocesana che segue la Regola di san Benedetto. Ci è parso infatti che la centralità di nuovo assegnata dal Concilio Ecumenico Vaticano II alla Chiesa locale chiedesse anche alla vita monastica di ripensare il suo rapporto con la Chiesa locale. Nel corso del tempo, tuttavia, la Comunità ha anche maturato il desiderio di un maggiore collegamento con le altre comunità benedettine italiane. Per questo motivo, dal 2010, ha stabilito una affiliazione con la Provincia italiana della Congregazione Cassinese-Sublacense, che le consente nello stesso tempo di mantenere la propria fisionomia di monastero diocesano e di essere in comunione con le altre comunità monastiche italiane.

Chi è il monaco? Non è raro, per chi ha scelto la vita monastica, sentirsi rivolgere domande del tipo: “Chi è il monaco? Si può dare una definizione di questo tipo di vita? E che senso ha la vita monastica per la chiesa e per il mondo di oggi?”. Domande legittime, che tradiscono certamente un interesse per una forma di vita che, nonostante tutto, desta ancora una certa curiosità, fosse solo per il fascino un po’ misterioso e romantico che la figura del monaco può suggerire. Per chi tenta di camminare quotidianamente su questo percorso tutt’altro che ‘romantico’, per chi desidera avventurarsi passo dopo passo in quella ‘ricerca di Dio’ (Se veramente cerca Dio è ciò che san Benedetto richiede a colui che bussa al monastero) che richiede una continua e a volte drammatica ‘conversione’, ogni definizione della vita monastica diventa un po’ inopportuna o invadente. Fu chiesto ad un eremita, che viveva nel deserto egiziano: “Chi è il monaco?”. Egli rispose riformulando paradossalmente la stessa domanda: “È colui che ogni giorno si domanda: Chi è il monaco?”. Ogni giorno si sceglie di avanzare nella fede e nell’amore alla sequela del Signore; ogni giorno, nella preghiera, si scopre un tratto del volto di Colui che si cerca, ma nello stesso tempo si percepisce la sua alterità. Dio è sempre al di là della nostre attese e dei nostri desideri. Ecco perché è difficile dare una definizione statica e comprensiva di una vita che si esprime essenzialmente in un cammino continuo di conversione, alla ricerca di Dio e del suo volto.

Comunque, se proprio dovessi dare una risposta a questi interrogativi, come monaco, spontaneamente userei le parole che lo starec Zosima, l’anziano monaco de I fratelli Karamazov, rivolge ai suoi discepoli: “Noi non siamo migliori della gente del mondo per il fatto che siamo venuti qui e ci siamo chiusi fra queste mura; anzi, chiunque è venuto qui, proprio per il fatto di esserci venuto, ha riconosciuto di fronte a sé stesso, di essere peggiore della gente del mondo… E quanto più un monaco vivrà fra le sue quattro mura, tanto più profondamente dovrà rendersene conto. Perché, in caso contrario, non valeva nemmeno la pena che ci venisse. Questa consapevolezza è il coronamento della nostra vita di monaci, e anche della vita di ogni uomo. Giacché i monaci non sono esseri diversi dagli altri; essi sono soltanto come dovrebbero essere tutti gli uomini sulla terra”. Questa profonda condivisione con ogni cristiano, nel suo cammino quotidiano di sequela e di fedeltà all’Evangelo, dà ragione alla vita del monaco, perché proprio nella fatica della conversione il monaco realizza la vocazione che è inscritta nel suo stesso nome: giungere alla unità del cuore e della vita. La preghiera, l’ascolto della Parola, il silenzio, la lotta interiore, la comunione con i fratelli, quella marginalità che caratterizza la vita monastica rispetto al mondo, tutto questo è il cammino concreto che traduce e orienta la vita del monaco nella ricerca di Dio. Ed è questo che, giorno dopo giorno, rende il cuore del monaco disponibile a quella unità interiore che è dono dello Spirito. Difatti questo è, essenzialmente, l’impegno di ogni cristiano e, in profondità, il desiderio di ogni uomo. Ecco perché lo starec Zosima dice che i monaci “sono soltanto come dovrebbero essere tutti gli uomini sulla terra”.

San Benedetto - icona di Giovanni Mezzalira
Due icone evangeliche. Forse due icone evangeliche ci possono aiutare a comprendere più in profondità il ‘mistero’ della vita monastica e soprattutto la parola di salvezza che esso ha ancora da dire al mondo d’oggi. La prima icona evangelica ci è offerta dal testo di Lc 10,38-42 Si tratta del celebra brano sull’ospitalità che le due sorelle, Marta e Maria, offrono a Gesù. È un testo che tradizionalmente è stato letto come espressione emblematica di due scelte di vita, quella attiva e quella contemplativa. Questa lettura ha avuto forse il rischio di separare eccessivamente ciò che di fatto, fa parte essenziale ed armonica dell’essere discepolo di Cristo, in quanto ascolto e servizio sono profondamente interdipendenti: le parole che Gesù rivolge a Marta non separano queste due realtà che nella vita del discepolo devono rimanere unite. Tuttavia ogni servizio può essere liberato dall’angoscia, dalla dispersione, dalla preoccupazione, da uno sterile efficientismo, solamente se è radicato nell’ascolto. E la scelta di Maria, nella sua concretezza, diventa annuncio e testimonianza del primato dell’ascolto. Senza dire nulla, solo per il fatto di essersi seduta ai piedi di Gesù e lasciarsi totalmente assorbire dalla sua parola, Maria diventa presenza che richiama, non attraverso un particolare servizio ma con la propria vita, la centralità di Dio e della sua parola. Il monaco, come Maria, ‘serve’ la chiesa, il mondo, l’uomo d’oggi, non anzitutto perché fa o realizza qualcosa, ma perché c’è, perché è presente con tutta la sua vita e la sua presenza, nel deserto o al centro della città, si trasforma in una “esistenza che grida silenziosamente il primato di Dio”.
Presenza e gratuità. Presenza e gratuità: due modi di essere nel mondo e nella chiesa d’oggi attraverso i quali il monaco testimonia il primato di Dio. La vita del monaco, al di là delle tante realizzazioni storiche, culturali, ecclesiali che da essa scaturiscono, è essenzialmente fatta di gratuità, è radicata sull’essere, è libera da uno scopo immediato, è proiettata oltre quei risultati superficiali che spesso l’uomo d’oggi affannosamente rincorre. Il monaco cerca semplicemente di essere un discepolo di Cristo e condivide questa fatica con ogni cristiano: nella preghiera e nell’ascolto della Parola, nel lavoro e nella condivisione, nella fatica della conversione e nell’obbedienza alla volontà di Dio. Certamente tutto questo lo vive all’interno di uno spazio e di un tempo ben definiti: la sua vita non è nel frastuono della città, ma ai margini di essa, in una sorta di deserto simbolico che favorisce un rapporto esclusivo e totalizzante con il Signore. E questo primato di Dio nella vita del monaco, primato che si sperimenta nel tempo dato alla preghiera, liturgica e silenziosa, alla lectio divina, alla solitudine, è l’annuncio e la testimonianza di ogni comunità monastica per la chiesa e il mondo d’oggi.
Di fronte all’apparire o alla illusione legata ad un eccessivo fare che soffoca le tensioni più vere e profonde della vita dell’uomo, il monaco risponde attraversa la via dell’’esserci’, di quella ‘gioia evangelica della presenza’, da cui scaturisce il dono gratuito, senza calcoli e pacificante, poiché affida ogni risultato alle mani di Dio.
Diceva il card. Basil Hume, monaco e pastore di una grande metropoli come Londra: “…noi benedettini non ci comprendiamo come gente che ha una particolare missione o funzione nella chiesa, noi non ci proponiamo di cambiare il corso della storia, noi siamo solamente là in modo quasi accidentale da un punto di vista umano, e felicemente continuiamo ad essere semplicemente là”. Essere semplicemente là, nella gioia di una umile presenza, accanto ad ogni fratello e sorella che desidera seguire il Signore Gesù. Essere semplicemente là, come le stelle di cui parla il profeta Baruc: “le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; Egli le chiama e rispondono: “Eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create” (Bar 3,34-35).

Tuttavia se il monaco non fa nulla di straordinario (“siamo laici senza importanza”, aveva risposto s.Pacomio al patriarca di Alessandria che tesseva le lodi della comunità monastica guidata dal grande abate), il modo con cui lo vive, il luogo che sceglie per vivere questo cammino evangelico, lo spazio che dà alla gratuità della preghiera e dell’ascolto, può trasformare la sua vita in segno ‘straordinario’ per il mondo e la chiesa di ogni tempo E si potrebbe esprimere questo segno ‘straordinario’ con un passaggio della lettera che la CEI aveva steso per commemorare il XV centenario della nascita di s.Benedetto: “Forse oggi le ‘teologie’, i ‘discorsi su Dio’, per quanto importanti, non bastano più. Ci vogliono esistenze che gridano silenziosamente il primato di Dio. Ci vogliono uomini che trattano il Signore da Signore, che si spendono nella sua adorazione, che affondano nel suo mistero, sotto il segno della gratuità e senza umano compenso, per attestare che egli è l’Assoluto. Tale è stata l’esistenza di s.Benedetto; e tale è chiamata ad esser quella dei monaci. Ma tale deve esser la vita del cristiano. È questa la testimonianza più urgente da dare, in un mondo il cui il senso di Dio si oscura e c’è bisogno come non mai di riscoprire il suo volto….”.

La seconda icona evangelica ci è suggerita dal testo di Gv 12,1-11, il racconto dell’unzione di Betania. È ancora la presenza silenziosa e adorante di Maria a svelarci il mistero del monaco. Il gesto gratuito di Maria che unge e profuma i piedi di Gesù, è la contestazione più radicale ad ogni logica di efficientismo (bene espressa dal ragionamento di Giuda), ad ogni logica che valuta la persona in base a una particolare resa o a un determinato ‘servizio’ che svolge all’interno della società o della comunità. Il gesto che Maria compie è ‘sciupato’ secondo questo modo di ragionare: “perché quell’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?” È un ragionamento che contiene una certa ovvietà e serietà; è un ragionamento che affascina anche il discepolo di Gesù. Tuttavia nasconde una grande ambiguità, una grande tentazione. Ed è Gesù stesso a smascherare questo rischio, capovolgendo ogni prospettiva di logica umana: la preziosità del gesto di Maria, il suo valore, è dato dall’averlo fatto per Gesù. Il valore di una persona, di una vita, di una scelta è data dal suo essere ‘davanti a Dio’, dalla gratuità con cui apre la sua vita a Colui che ha donato al sua vita. Maria ha sciupato senza calcoli (i trecento denari che l’uomo riesce a calcolare!) ciò che aveva di più prezioso per Gesù; il monaco ‘sciupa’ per il Signore il dono più caro, la sua stessa esistenza “sotto il segno della gratuità senza umano compenso, per attestare che Egli è l’Assoluto”. La gratuità e la gioia che ne deriva, sono il profumo di una vita ‘sciupata’ per il Signore.

Su Google Maps puoi vedere l'area geografica in cui è situato il monastero; di seguito trovi tutte le informazioni utili per raggiungerci.

In treno: La stazione ferroviaria più vicina è quella di Luino (partenze da Milano C.le o Milano Garibaldi, linea Milano-Luino; alcune corse sono dirette, altre prevedono un cambio a Gallarate. In alcuni orari da Gallarate c’è servizio autobus sostitutivo del treno). Per chi proviene da Torino è possibile raggiungere Luino anche mediante la linea Torino – Novara – Rho. Il monastero si trova a circa 30 minuti di auto da Luino. È necessario prendere accordi con la comunità perché un fratello possa scendere in auto alla stazione di Luino.

In auto:

1. Provenendo da Milano, raggiungere Luino mediante l’Autostrada dei Laghi (A8); dopo Gallarate tenere la direzione di Varese e uscire al casello di Gazzada. Quindi seguire le indicazioni per Valichi svizzeri (CH) e quindi per Valganna; subito dopo Ghirla, girare a sinistra in direzione Cunardo-Luino. Proseguire per Luino-lago e quindi per Dumenza. A Dumenza si iniziano a trovare cartelli marroni con la segnalazione Comunità Monastica Ss. Trinità. Seguendo le loro indicazioni occorre proseguire oltrepassando le frazioni di Runo, Stivigliano, Due Cossani, fino a trovare l’ultimo cartello che indica di svoltare a destra; salire per 5 km fino a raggiungere il monastero.

2. In alternativa: prendere da Milano l’Autostrada dei Laghi (A8), ma dopo Gallarate proseguire in direzione Gravellona Toce (anziché Varese). Uscire al casello di Sesto Calende-Vergate e poi seguire l’indicazione Luino. Quindi, come sopra. (Alla rotonda di Cittiglio consigliamo di raggiungere Luino attraverso la Valcuvia – SS 394 e non il lungo lago).

3. Per chi proviene da Como, raggiungere Varese seguendo la statale Varesina (SS 342); dopo Malnate, giunti, all’altezza dell’Ipercoop, svoltare a destra anziché salire verso Varese centro e seguire le indicazioni per la Valganna; quindi raggiungere Luino come indicato sopra al punto 1.

Chi utilizza un navigatore satellitare deve impostare la destinazione su Dumenza, località Pradecolo. Il monastero si trova sulla via che conduce a Pradecolo, circa 2 km prima di raggiungere questa località.

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