Professione monastica solenne
"Ti canterò alla presenza
degli angeli" (RB 19,5)
"Ripetiamo il nostro sì a lasciarci amare
dal Padre, dal Figlio, dallo Spirito santo"
di fratel Andrea Oltolina
(Dall'Introduzione alla preghiera di intercessione per Alberto Maria, Elia ed Ambrogio; Dumenza, sera del 29 giugno 2024)
DALLA REGOLA DI SAN BENEDETTO
RB 58,1-2
"Quando uno si presenta per abbracciare la vita monastica, non gli si conceda facilmente di entrare, ma anzi si faccia come suggerisce l’Apostolo: Mettete alla prova le ispirazioni per vedere se provengono veramente da Dio".
RB, Prologo 48-50
"Tu, sopraffatto dal timore, non fuggire subito lontano dalla via della salvezza. È naturale infatti che, agli inizi, la via sia stretta e faticosa, ma poi avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti.
E così, non scostandosi mai dal magistero di Dio, anzi perseverando nel suo insegnamento, stabili in monastero fino alla morte, parteciperemo con il nostro mite patire, alle sofferenze di Cristo, per meritare di condividere pure la gloria nel suo Regno".
Quanto Alberto Maria, Elia e Ambrogio stanno per compiere coinvolge ognuno di noi e tutta la comunità nel suo insieme. La famiglia si allarga e tutti siamo sollecitati a ripercorrere le strade della conversione per seguire il Vangelo in modo rinnovato. Rendiamo grazie al Signore per darci questa opportunità, ringraziamo i tre fratelli che decidono di donare la vita nell’obbedienza, nella stabilità della vita comune, nel celibato e nella condivisione, fino a non essere nemmeno più padroni del proprio corpo (RB 58,25), come dice san Benedetto nel capitolo della professione. Ripetiamo tutti il nostro sì a lasciarci amare dal Padre, dal Figlio, dallo Spirito santo.
DALLE COSTITUZIONI DELLA NOSTRA COMNITà MONASTICA
Art. 64. Umiltà, verità, carità. L’umile e sincera carità è l’atteggiamento del cuore con il quale il fratello vive le esigenze del suo cammino di conversione.
L’umiltà - vera ascesi del monaco, come pure il suo traguardo e l’anima di tutta la sua vita — gli fa riconoscere che quanto in lui c’è di bene non è opera sua, ma di Dio, che in lui agisce. Essa lo conduce alla verità del suo essere, rendendolo trasparente davanti a Dio che, attraverso le umiliazioni, vuole conoscere il suo cuore, e rendendolo semplice e sincero verso i fratelli, in una carità senza finzioni.
La verità qualifica la sua ricerca di Dio, rende luminoso il suo occhio e docile il suo cuore, per poter discernere ciò che è secondo il comandamento di Dio da ciò che è secondo la tradizione degli uomini.
Senza la carità, infine, nulla del suo impegno gli giova; sa infatti «che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte».
"Cosa avviene in una professione solenne?"
di fratel Andrea Oltolina
(Dall'ultima Newsletter, n. 36/2024, Trasformati in uomini e donne del regno)
La Comunità tutta era in attesa del 2024 poiché sarebbe stato l’anno della professione solenne di tre fratelli giunti ormai al termine del loro periodo di formazione e discernimento, Alberto Maria, Elia ed Ambrogio. Il nostro Monastero ha una forma giuridica che lo lega in modo speciale alla diocesi, pertanto, in un momento così importante, è proprio augurabile la presenza del vescovo quale presidente della celebrazione eucaristica nella quale vengono emessi i voti perpetui dei candidati; tale presenza è simbolo che visualizza l’inserimento della vita monastica nei carismi di una chiesa locale, chiesa che si desidera servire attraverso il proprio specifico stile di vita cristiana. La presenza dell’arcivescovo di Milano era pertanto la prima e fondamentale “tessera” – oltre, naturalmente, all’accoglienza definitiva della comunità rispetto alla richiesta dei fratelli in cammino – della celebrazione stessa. Il 3 gennaio inviai la domanda in arcivescovado e prontamente il cerimoniere mi rispose offrendo però la prima positiva disponibilità di mons. Mario Delpini per il pomeriggio della domenica 30 giugno: Milano è una diocesi immensa e chi la guida ha una serie innumerevole di impegni…
Effettuate serenamente le necessarie votazioni di ammissione e sentita l’intera comunità, in breve tempo siamo arrivati alla felice risoluzione di effettuare in un’unica celebrazione le professioni solenni di Alberto Maria, Elia e Ambrogio. Per ragioni logistiche, ma anche di legame con il territorio, con la comunità parrocchiale e con quanti ci sono vicini personalmente e spiritualmente, abbiamo deciso che la celebrazione avrà luogo nella chiesa parrocchiale di san Giorgio di Runo, frazione di Dumenza. Il parroco, il sindaco e quanti sono maggiormente in contatto con noi hanno volentieri offerto la struttura e quanto è necessario per allestire in modo efficace e funzionale tale momento. Un monastero ha un proprio stile di presenza: sobrio, orante, discreto, laborioso, defilato, ma reale. E tante persone, a cui siamo grati, sanno accogliere e rispettare tale modalità, collaborando in modo affettuoso e cordiale.
Ecco dunque, la nostra comunità avrà a breve tre nuovi fratelli che hanno scelto di seguire in modo stabile e permanente il Signore Gesù nella vita monastica secondo la tradizione di san Benedetto.
Alberto Maria è piemontese, della diocesi di Ivrea; Elia è nato a Dubai, negli Emirati Arabi, ma ha origini libanesi; Ambrogio arriva da Cuba. Tre fratelli provenienti da mondi e culture differenti, con percorsi specifici ed esperienze individuali, ma tutti testimoni della sfida e della centralità della vita comunitaria. Spesso si è soliti etichettare la vita monastica benedettina con il motto, peraltro impreciso ma assai diffuso, dell’“ora et labora”. In realtà la nostra quotidianità si nutre non solo di preghiera, non solo di lavoro, ma anche e soprattutto di relazioni. Il mondo è ormai un villaggio globale, le distanze si sono accorciate significativamente e a noi sembra venga chiesto di rappresentarlo con tutte le sue sfaccettature e colori.
Ma che cosa avviene in una professione solenne?
A chi, dopo un lungo tempo di permanenza in una comunità monastica, accompagnato dall’esperienza e dal discernimento dei fratelli, viene riconosciuta una autentica e reale possibilità di vivere il vangelo nella forma monastica, si chiede di sigillare questo desiderio attraverso una celebrazione in cui si ringrazia il Signore di tale appello alla santità e si domanda a Lui e ai fratelli della comunità stessa il sostegno per portare a compimento quanto è stato iniziato.
I voti – che non si “prendono” come spesso si sente dire, ma si emettono – sono gli impegni che il fratello desidera concretizzare nella propria vita al fine di “cercare veramente il Signore” (RB 58,7).
La nostra comunità, seguendo la tradizione, ha scelto di esprimerli secondo la formula riportata nella Regola di Benedetto: “obbedienza, conversione dei costumi e stabilità”.
Secondo san Benedetto l’obbedienza è la radice di tutto, il cuore della vita spirituale di ogni monaco. Gesù è stato colui che non ha fatto la propria volontà, ma quella del Padre, non ha obbedito alla propria salvaguardia ad ogni costo, ma ha creduto che la via dell’amore, perseguita fino alla fine e in modo assoluto, è ciò che rivela maggiormente l’identità di Dio e svela l’autentica dignità a cui ogni uomo è chiamato. L’uomo deve – e ripeto, deve – fare la propria volontà nella misura in cui sa di seguire il vangelo; ma quando vi sono certe situazioni, dove viene richiesto un discernimento raffinato, non è così facile sapere se si sta veramente cercando di seguire la via evangelica o meno. Obbedienza deriva dal latino “ob audire” cioè dare ascolto, prestare attenzione: l’obbedienza diviene allora una predisposizione d’animo, la capacità di porsi in ascolto con attenzione così da poter comprendere le cose nel profondo.
Ecco allora il suggerimento chiave di Benedetto: làsciati accompagnare nel discernimento, presta ascolto ed attenzione a qualcun altro che vede dall’esterno la situazione ed è meno coinvolto di te nella vicenda specifica. Per Benedetto l’obbedienza è un bene talmente grande che, saggiamente, non lo intende solo in una dimensione “verticale”, del priore nei confronti del fratello, ma anche nel coinvolgimento della comunità, dei fratelli nella loro dimensione orizzontale. Scrive al termine della Regola: “Facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda” (RB 72,6). C’è un tale desiderio di vivere il vangelo in pienezza e verità che si è adottato questo “trucco” per evitare di credere di fare la volontà di Dio facendo invece solo la propria e magari giustificandola con il buon senso, l’equilibrio, la misura in ogni cosa…. Il vangelo chiede adesione piena, perché è incontro con la persona di Gesù e stare insieme a lui è decidere di vivere l’amore pasquale, che si affida sperando nella risurrezione.
Questo stile di vita, lo si comprende facilmente, implica una conversione di atteggiamenti, di modi di fare – non solo di pensare e di riflettere – una “conversione di costumi”, intendendo questi ultimi come consuetudini esistenziali. La vita monastica è guidata, come ogni vita cristiana, da concretezza ed operatività. Dall’orario all’attività lavorativa, dall’alimentazione alle letture, dal silenzio all’arte della comunicazione, dalla preghiera alla lectio divina: ogni tratto della vita viene accompagnato da suggerimenti sapienti, frutto dell’esperienza di chi ci ha preceduto e della gioia evangelica.
Infine, Benedetto propone una via adatta a cenobiti, ossia a “coloro che vivono in monastero e obbediscono a una regola e a un abate” (RB 1,2). La stabilità è un legame non ad un luogo fisico, ma ad un gruppo di persone con le quali si decide di condividere tutta l’esistenza fino all’incontro pieno con il Signore della vita. La tradizione monastica non prevede, come altre forme di vita religiosa, il trasferimento dei fratelli in differenti case, spostamento spesso motivato da ragioni di carattere pastorale. La condivisione con i fratelli giunti in comunità è impegno alla gratuità dell’amore e ricchezza di solidità reciproca: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Il monaco benedettino crede che l’amore autentico fiorisca nella quotidianità e nella regolarità delle giornate, superando i propri momenti di difficoltà psicologica e nutrendosi reciprocamente dell’aiuto vicendevole.
Ringraziamo allora innanzi tutto il Padre che chiama alla sequela del Signore Gesù nuovi fratelli secondo l’amore suscitato dallo Spirito santo; ringraziamo la Chiesa tutta e quanti sono, in forma visibile e consapevole o meno, fratelli e sorelle nella fede; ringraziamo tutti gli amici e le amiche che si affiancano al nostro cammino sostenendolo e arricchendolo con i loro doni ed interrogativi; ringraziamo i genitori e le famiglie dei nostri prossimi professi, che hanno avviato i loro figli e parenti alla maturità umana e spirituale; ma soprattutto ringraziamo Alberto Maria, Elia ed Ambrogio per aver scelto di offrire la propria vita in questa comunità monastica ravvivando in tutti noi la sequela del Signore crocifisso e risorto, in cammino verso l’eternità dell’amore.
"Dimmi una parola, uomo di Dio" (Sap 1,13-15; 2,23-24; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43)
di Mario Delpini, Arcivescovo di Milano
(Omelia pronunciata durante l'Eucarestia della Professione solenne)
Download del testo in formato PDF (cf Dal sito della Diocesi di Milano)
“E tu, uomo di Dio, parlaci delle cose, parlaci del possedere, del vendere e del comperare, parlaci delle cose che ingombrano la nostra casa e la nostra mente, parlaci delle troppe cose dei ricchi e delle cose troppo poche dei poveri!”.
“Fratello, sorella, io non so delle cose, io so dei doni, io so dei segni.
Non vedo cose, ma doni: tutto mi parla di chi si è preso cura di me, di Dio che ha creato il mondo e dei figli degli uomini che l’hanno reso abitabile per me, per noi. Ecco, ogni cosa è dono.
Non vedo cose, ma segni: tutto mi parla e il pane mi parla della fame e il vino della gioia, e il seme mi parla della speranza e il denaro mi parla della sollecitudine, del bene che posso fare per chi è povero, dell’aiuto che posso dare per chi è nel bisogno, secondo la parola dell’apostolo: “la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza e vi sia uguaglianza.
Non voglio né l’indigenza né l’abbondanza, ma che le cose della casa siano il segno dell’essere fratelli e dell’avere tutto in comune.
Ecco che cosa posso dire delle cose: che sono doni, che sono segni, perché non diventino idoli che pretendono l’adorazione al posto di Dio e rendano schiavi invece che liberi, invidiosi invece che generosi”.
“E tu, uomo di Dio, parlaci del tempo, parlaci della durata che ci logora, parlaci del tempo insopportabile dell’essere malati, del trascinarsi penoso dei giorni della vecchiaia, parlaci del tempo che non passa mai e del tempo che passa troppo in fretta, parlaci del tempo che sfugge, parlaci dei dodici anni della donna malata che aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo i suoi averi senza alcun vantaggio, parlaci del tempo, uomo di Dio”.
“Fratello, sorella, io non so del tempo. Io so dei giorni, del sole che sorge e del sole che tramonta, io so dei giorni di festa e del cantico, dei giorni del tempo ordinario e del silenzio, dei giorni del lutto e del gemito e del silenzio. Non so dire dell’enigma troppo indecifrabile del tempo, so dire del ritmo che umanizza il tempo e dell’orario della giornata che rende le ore sempre vive di un invito: a pregare, a lavorare, a riposare, a dimorare nello stupore della presenza della gloria di Dio in Gesù, il Verbo fatto carne, cioè dell’eterno che entra nei giorni degli uomini.
Non so dire del tempo e dei suo trascorrere spietato e penoso, so dire dell’occasione, so dire dell’incontro, so dire del momento opportuno della donna che udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro tocco il suo mantello. Non so dire del tempo: so dire dell’oggi, di questo oggi festoso o dell’oggi penoso, dell’oggi tranquillo e dell’oggi drammatico. So dire dell’oggi, il momento giusto per incontrare Gesù, toccare con fede almeno il lembo del mantello e essere guariti.
Non so dire del tempo, so dire del ritmo e dell’incontro.”
“E tu uomo di Dio, parlaci del morire, del morire inevitabile che rende insensata la vita, della morte assurda inflitta da mano d’uomo, della morte straziante della figlioletta di Giairo e delle infinite morti troppo di troppo dolore, di troppo strazio”.
“Io non so della morte: intorno al morire c’è troppo trambusto e gente che piange e urla forte. Io non so della morte. So della voce che chiama: “io ti dico: alzati”. Io non so dire del dramma troppo indecifrabile del morire, so della promessa della vita; non conosco la parola che decreta la morte, ho però ascoltato e credo nella parola di vita eterna. Non so dire dello spavento e dell’angoscia di chi muore, nessuno da dire della morte di un altro. So dire del morire di Gesù che squarcia il velo e nel morire dona lo Spirito di vita.
Io non so della morte, vivo, vivo in attesa che si compia la speranza e venga il Signore per dire anche a me: “Io ti dico: alzati!”.
La decisione dei nostri fratelli di celebrare la professione solenne e la decisione della comunità monastica di accogliere questi fratelli per una appartenenza definitiva ci hanno qui convocati. E siamo venuti con il nostro affetto e il nostro desiderio di fare festa con loro.
Siamo venuti con le nostre domande a cercare risposta negli uomini di Dio. E la vita monastica non offre risposte alle domande mondane, ma apre cammini per invitarci a entrare nell’amicizia di Gesù e così forse possiamo imparare che non ci sono cose da possedere, ma doni da ricevere e segni per scrivere una storia di fraternità, non c’è il tempo, ma il ritmo per vivere il quotidiano e l’occasione per l’incontro, non c’è il trionfo spaventoso della morte, ma la vittoria della parola di vita eterna.
Così ci parla la vita monastica: fraternità, ritmo di vita e festa d’incontro, segno del regno che viene, attesa della parola di vita eterna.
Si ringrazia la Grazia Lissi per la