Dalla "Presentazione". All’alba dell’VIII secolo, la figura di Benedetto da Norcia, il grande abate posto al cuore dei Dialoghi dal santo papa Gregorio Magno era divenuta un modello a cui tutta l’Europa era chiamata a guardare al fine di tessere la sua unità spirituale. La sua Regola, nata in Italia nel VI secolo, era divenuta la carta fondativa della vita religiosa sul Continente, imponendosi come una sorta di codice spirituale condiviso, su cui porre le basi per una reale cultura evangelica. Benedetto diventava così il nuovo modello per rileggere le espressioni di santità del popolo cristiano. Il nuovo rapporto della Chiesa ai popoli europei aveva generato infatti il bisogno di luoghi che fossero prima di tutto dei generatori di cultura, capaci di creare comunione, senza sopprimere le diverse espressioni locali.
Ogni popolo europeo era chiamato a rileggere quindi, nella vita di Benedetto, le esperienze di vita evangelica fin qui vissute, ma soprattutto era chiamato a orientare a partire da quella radice buona, le molteplici risposte che il messaggio di Cristo sollecitava.
La Regola di Benedetto che riuniva in sé gli apporti principali del monachesimo primitivo di Basilio, di Pacomio e di Cassiano, si presentava allora come uno strumento atto a calare quelle istanze nelle nuove e nascenti realtà nazionali, permettendo alla Chiesa di continuare a portare l’acqua buona della Parola di Vita a un mondo assetato di identità.
La vita monastica benedettina permetteva di costruire l’identità ecclesiale e locale a partire da un’esperienza condivisa di vita comunitaria, moltiplicatrice di esperienze buone, di offrire ai popoli una storia condivisa, guardando a Oriente, e di garantire il radicamento evangelico di queste nuove esperienze, attraverso il radicamento monastico che la tradizione anteriore, soprattutto eremitica, aveva strutturato.
Come spiega il monaco Giona di Susa ogni vita monastica è strettamente connessa a un contesto ecclesiale locale e dalla ricchezza di questo contesto dipende anche la sua vitalità:
“se i monaci d’Oriente hanno dipinto la loro vita in campi verdeggianti ammantati di fiori, per noi invece l’arida terra è a malapena capace di produrre arbusti. Quelli infatti hanno a profusione le lacrime del balsamo di Engaddi e i fiori aromatici di Arabia; noi abbiamo a stento il grasso burro di Irlanda. Quelli ricevono pepe e nardo dall’India; a noi è a stento se le creste delle Alpi, dai contorni incerti e coperti di pini, dove sotto le raffiche dei venti, i freddi sono pungenti, arrivano a dare la valeriana. Quelli possono vantare una quantità di pietre preziose; a noi sembra temerario vantarci dell’ambra di Gallia. Quelli offrono i frutti della palma, assolutamente esotici; noi, in Italia, abbiamo come dice il poeta, dolci frutti nostrani, le tenere castagne”.
Attraverso questa metafora, il monaco piemontese, giustifica la fecondità della vita monastica in Oriente, per la varietà e la ricchezza del contesto culturale entro cui essa nasce e si colloca. Nonostante la scelta del deserto, essa gode della prossimità dei luoghi santi (Engaddi), ma beneficia anche degli apporti spirituali dell’India e dell’Arabia. Essa è a suo parere suscettibile di una vitalità maggiore, perché vede il Vangelo confrontarsi ad un insieme di domande spirituali più ricco e più complesso, rispetto al contesto europeo della sua epoca.
Offrendo al mondo l’esperienza benedettina la Chiesa voleva garantire che un soffio d’Oriente, racconto nelle lande meridionali della nostra Penisola, potesse soffiare fino agli estremi confini del mondo, donando ai popoli una nuova possibilità di esistere. Il passaggio dal mondo monastico celtico al mondo monastico benedettino, si colloca quindi in quest’ambito culturale, che è il passaggio da un monachesimo di stampo eremitico, fortemente incentrato sull’esperienza del deserto, ad un monachesimo cenobitico, in cui pur preservando la separazione, esso si arricchisce mutualmente dal radicarsi in una chiesa locale. Le tre vite che abbiamo selezionato mostrano con chiarezza questo avvicendarsi.