In questa rubrica si è già provato a dire qualcosa riguardo al Giubileo che quest’anno la Chiesa offre alle donne e agli uomini di tutto il mondo, un’occasione «per favorire la conoscenza e l’incontro con il Signore Gesù, instaurando un virtuoso cammino di conversione e bellezza» (Newsletter n. 38/dicembre 2024, p. 3). Il tema di questo Giubileo è “Pellegrini di speranza”, una speranza che non delude, secondo l’espressione di Paolo nella lettera ai Romani (5,5), perché si appoggia sulla fedeltà dell’amore di Cristo e apre a un rinnovamento delle relazioni interpersonali e collettive.
Parto dal primo termine, pellegrino. I monaci che seguono la Regola di san Benedetto fanno voto di stabilità, ossia si impegnano a condividere la loro esistenza con un determinato gruppo di fratelli per tutta la loro vita. La ragione profonda di questa scelta è vivere con radicalità l’amore fraterno, in una gara di obbedienza reciproca – come scrive san Benedetto nello splendido capitolo 72 della sua Regola –, evitando di girovagare fuori del monastero o di trovare giustificazioni esterne per non affrontare i problemi relazionali che possono insorgere nella vita comune. La stabilitas loci, la permanenza in un determinato luogo, aiuta in modo evidente il raggiungimento di tale finalità. Ora, tutti noi sappiamo che il pellegrinaggio è proprio il recarsi da un posto a un altro, da un luogo a un altro, ritenuto carico di richiami spirituali e religiosi che aiutino il fedele a “ricalibrare” la propria sequela evangelica. Fin dall’antichità il pellegrinaggio cristiano per eccellenza è sempre stato quello verso la Terra Santa, il luogo dove Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena; successivamente Roma ha acquisito un ruolo sempre più centrale a motivo della Santa Sede e del luogo del martirio dei grandi discepoli Pietro e Paolo; a discesa: santuari, abitazioni di santi e sante, luoghi ove sono avvenuti fatti inspiegabili, miracolosi. Ma centrale, anche più del raggiungimento della meta ambita, era soprattutto il cammino, faticoso e impegnativo, se non addirittura pericoloso, che tale spostamento comportava: un cammino che era propedeutico e sostanziale per la purificazione dell’anima del pellegrino e per nutrire l’attesa di un incontro lungamente coltivato nel tempo, e che produceva una progressiva dilatazione del cuore verso un amore sempre più autentico e gratuito. Come possono dunque i monaci vivere questo pellegrinaggio, visto l’impegno di stabilità cui si sono votati?
Non entro in merito alla modifica sostanziale che oggi gran parte dei pellegrinaggi ha subìto, trasformandosi spesso in meri viaggi turistici, o all’impegno economico che spesso questi possono comportare: sono oggettivamente aspetti secondari rispetto alla finalità principale, che resta in ogni caso la conversione. Ecco dunque in quale senso è possibile anche per un monaco essere pellegrino in questo tempo giubilare: attraversare l’ordinarietà della propria esistenza con un pellegrinaggio interiore – i padri della chiesa si scagliavano duramente verso chi sostenesse che solo recandosi a Gerusalemme era possibile conseguire degli autentici e duraturi passi di trasformazione della propria vita – che individui delle tappe e una meta spirituale autentica. Sarebbe bello che ognuno di noi, monaco oppure no, giungesse al termine di questo tempo di grazia, al di là di un itinerario geografico verso un luogo sacro o meno, con almeno la tensione verso un frutto dello Spirito: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Questo sarebbe essere autenticamente pellegrini!
Ma anche qui è necessaria una importante consapevolezza: a questa dimensione di trasfigurazione della propria esistenza si potrà giungere solo e soltanto nella misura in cui terremo fisso, nel nostro camminare attraverso le pieghe della vita, lo sguardo su Gesù (cfr Eb 12,2) e ci lasceremo sempre più affascinare dal suo stile, interrogare dalle sue parole, mettere in crisi dai suoi gesti. Solo con una preghiera umile e costante potremo continuare il cammino nella gioia e nella verità.
La speranza. Come mai proprio la speranza è stata messa al centro di questo Giubileo? Che cosa si desidera far crescere e, al contrario, combattere?
Numerose sono le speranze che alimentano i nostri desideri più immediati e spontanei: poter avere una vita bella, ricca di relazioni e salute, aperta al futuro e capace di tener conto della sapienza di coloro che sono venuti prima di noi, che fiorisce aderendo alla realtà e genera nuova linfa per le generazioni future. Più in profondità: speranza che la giustizia sia la dimensione che governa il mondo, che la guerra venga ripudiata come strumento per regolare le relazioni tra le nazioni, che il cibo sia distribuito in modo sufficiente per tutti e che l’umanità sappia affermare con coraggio e perseveranza il valore di ogni uomo, al di là degli errori che questi può aver compiuto, che la nostra casa comune sia rispettata e custodita nella sua straordinaria unicità, che esista una comunicazione rispettosa della verità e non “drogata” a fini economici e di potere, che ogni essere umano possa godere di piena libertà nella sua dimensione religiosa…
Potremmo aggiungere ancora tante forme di speranza. Oggi forse però ci viene chiesto di lottare non tanto contro la disperazione, ossia la mancanza di senso, quanto contro l’indifferenza. La nostra società ha perso la passione per ricercare un compimento, una pienezza, e si adegua, si adatta, si rinchiude – e viene costretta a rinchiudersi! – nel proprio piccolo mondo, perdendo lo sguardo ampio, universale e autentico che ogni essere umano porta nel cuore. Sembra che nulla possa cambiare contro il mondo della finanza, della tecnica, della violenza e le nuove generazioni stanno rischiando di avere una prospettiva di vita molto più fragile, insicura, incerta rispetto ai propri genitori e a chi ha camminato prima di noi su questa Terra. Le passioni tristi, la depressione prima tra tutte, colorano il nostro tempo in modo importante.
Siamo allora invitati a non arrenderci, a saper combattere contro l’apparente inevitabilità negativa che ci sovrasta, a ridare nuove motivazioni al nostro agire nonostante le ferite e i fallimenti sperimentati. Non siamo chiamati ad essere supereroi o a negare i nostri limiti, ma ad imparare dai nostri fallimenti trasformando le nostre sconfitte in opportunità di crescita e verità. Basta con l’apparenza e il formalismo!
«I monaci si prevengano nello stimarsi a vicenda, sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali, nessuno cerchi il proprio vantaggio ma quello degli altri, amino con cuore casto tutti i fratelli, temano Dio con trasporto d’amore, ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna» (RB 72). Ecco il mondo nuovo, riconciliato e libero, che Benedetto prospetta al monaco. Ma è uno stile che ognuno può “importare” nella propria vita per rinnovarla nella verità. Il Signore Gesù, che ha sperato che la vita non sarebbe stata divorata dalla morte e ora vive oltre la morte – la quale annienta ogni nostra possibile speranza, anche buona – ci attende e cammina accanto a noi nel nostro pellegrinaggio terreno verso la pienezza di una vita non meno che eterna.
Come ha scritto sr. Simona Brambilla, neo eletta prefetto del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, riprendendo un adagio della tradizione patristica applicato alla Chiesa in riferimento alla luce di Cristo, «la vita religiosa è come la luna, non acceca e non “spegne” le stelle; è sinodale, brilla e lascia brillare, è umile. La luna si vede di notte e il nostro tempo può essere considerato notte». Davvero speriamo che la vita monastica, nel suo discreto porsi accanto a ogni essere umano, nella chiesa, a favore dei più poveri, possa offrire una luce lunare autentica, che apra all’incontro con la luce piena del Signore Gesù. È l’augurio che ci facciamo reciprocamente affinché questo Giubileo sia davvero una trasformazione della vita di tutti noi.
Il Duomo di Treviri è, come pochi altri edifici ecclesiastici, una viva testimonianza del principio antico: Ecclesia semper reformanda. La Chiesa, cioè, è chiamata a rinnovarsi continuamente.
Sorto su una pianta quadrata di epoca paleocristiana, l’edificio è stato ampliato e trasformato nel corso dei secoli, attraversando i linguaggi architettonici del romanico, del gotico e del barocco.
Tra il 1970 e il 1974, la cattedrale fu oggetto di un importante intervento di restauro e adeguamento liturgico secondo le direttive del Concilio Vaticano II. In questo contesto, il capitolo della cattedrale incaricò l’artista svizzero Ferdinand Gehr di realizzare due affreschi intitolati Alfa e Omega, collocati sopra i portali occidentali. Il riferimento è evidente: si richiama il versetto dell’Apocalisse (22,13), in cui Cristo dice di sé: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine».
Mi soffermo in particolare sull’immagine dell’Omega, che brilla per i suoi colori accesi. Durante i lavori, le due finestre che si trovavano sopra i portali furono murate, impedendo l’ingresso della luce naturale. È così che Gehr decise di “portare luce” attraverso il colore. L’affresco Omega si accende di toni intensi e gioiosi, che sembrano irradiarsi dal centro: a differenza di Alfa, che avvolge l’inizio della storia nel mistero delle forme astratte, Omega presenta elementi figurativi molto riconoscibili – nuvole, alberi, figure umane e animali – che si organizzano attorno alla figura centrale del Cristo, in una danza cosmica in cui il male e il serpente antico vengono cacciati fuori.
Cristo è raffigurato in posizione di apertura, quasi di resa, al centro del Creato, ma è anche colui che viene sulle nubi del cielo, sempre parafrasando l’Apocalisse (Ap 1,7). Le sue braccia distese sembrano raccogliere in sé ogni elemento e divengono il punto di incontro tra cielo e terra. «È la pura gioia dell’essere. Un’esistenza in cui le condizioni della materia non sono abolite, ma sono incluse nella libertà dello spirito»: così Gehr descriveva negli anni ’70 la sua opera. La bellezza del mondo, in questa visione, non indica un Dio lontano, ritiratosi dopo l’atto della creazione, ma testimonia piuttosto una divina presenza che continua a dispiegarsi nel visibile, nel quotidiano. Il Cristo è lì, tra gli uomini, in forma umana, segno chiaro dell’amore incarnato di Dio.
La gioia che traspare da questa immagine è semplice, quasi infantile. L’ingenuità, di cui Gehr fu talvolta accusato, diventa qui linguaggio tangibile della gioia stessa: una semplicità che non è superficialità, ma trasparenza spirituale.
«Il 6 gennaio 1896, festa dell’Epifania, nacque Ferdinand Gehr. I Re Magi, che viaggiarono a lungo e seguirono la stella per trovare il re neonato, furono modelli di vita per la sua personale ricerca di Dio.» Così lo descrive p. Martin Werlen, priore della prepositura di San Geroldo in Austria, che ho incontrato con un gruppo di amici della Fondazione Beato Angelico di Milano nel novembre 2024.
Padre Martin, mentre ci mostra un’altra interessante opera dedicata all’Apocalisse e che Gehr ha realizzato proprio nel priorato di san Geroldo, ci dice: “la sua data di nascita non è soltanto un ricordo anagrafico, ma è come un presagio. L’Epifania è la festa della manifestazione della luce, la rivelazione del Dio invisibile nella carne fragile di un bambino. L’opera di Gehr sembra custodire questa tensione epifanica, questa irruzione della luce nella materia del mondo”.
Nel suo Omega la luce non viene infatti dall’alto, ma viene dai colori e dalle armonie che si sprigionano dal gesto arreso di Cristo: è la luce dell’amore, dell’infanzia del mondo, danza che è anche compimento di tutte le cose. Nel cuore dell’antico Duomo della città tedesca, questa immagine gioiosa di Cristo-Omega ci apre alla riflessione sulla fine della storia, che in un’ottica cristiana è sempre apertura alla speranza e alla gioia piena, manifestazione completa di tutti i colori che si rivelano nella bellezza sempre nuova di Dio.
Nell’intenzione iniziale questa sarebbe dovuta essere una semplice intervista a Philip, 43 anni, svizzero, e a Tibo, 29 anni, francese, coordinatori dell’ecovillaggio Alpe Pianello (https://www.alpepianello.it/), per approfondire con loro il tema del rapporto tra vita spirituale ed ecologia. Dopo poche domande, è diventato un dialogo sincero, aperto e leale, che si è infine trasformato per tutti i partecipanti in una sorprendente esperienza di incontro spirituale. Qui di seguito riportiamo alcuni dei passaggi più illuminanti. L’intero dialogo lo trovate pubblicato sulla pagina online della nostra newsletter.
(…)
PHIL: Nella nostra ricerca è stato molto importante trovare un luogo nella natura, quindi lontano dalla vita frenetica e dal caos e soprattutto dal sistema che ci veniva “imposto” dalla cultura urbana. Quindi, l'importanza di trovare un posto lontano era di fatto quella di trovare in prima istanza un nido protetto al di fuori della società, dove poter sperimentare un nuovo stile di vita a stretto contatto con la natura. Stavamo cercando un luogo che avesse acqua pura, perché non volevamo più bere l'acqua degli acquedotti, dove respirare aria pulita e poter ascoltare il silenzio dei boschi. Nei miei sogni c’era sempre la montagna. Doveva essere anche un posto abbastanza grande per poter ospitare più persone e non solo le poche persone di un nucleo familiare. Io e mia moglie Shanti cercavamo un luogo dove avremmo voluto andare a vivere come famiglia, dove far crescere i figli in un ambiente sano, salutare, ma anche un luogo dove avremmo potuto vivere con persone che parlano una lingua diversa, cioè che non parlano la lingua omologata che si parla nella società, dove avremmo potuto sperimentare un altro stile di vita, magari anche con un'alimentazione diversa e un'istruzione diversa (…). Un luogo nel quale avremmo potuto coltivare la crescita spirituale e il cambiamento interiore, senza che si dovesse essere visti come settari o dei guru. (…)
DAVIDE: Vista l'esperienza che avevate prima di relazioni nel lavoro e anche di amicizia nel mondo, come cambiano le relazioni in un ambiente più isolato, immerso nella natura, ristretto, e anche più intensivo, che richiede di esserci con meno distrazioni?
TIBO: Mi ricordo una sensazione che avevo avuto l'anno scorso qui all’Alpe Pianello in cui stavo in un gruppo abbastanza piccolo che sarebbe rimasto per alcuni mesi. A un certo momento mi sono detto: di questa persona non conosco la storia… siamo insieme da due, tre mesi, ma non conosco ancora tutti i suoi lati. Poi mi sono guardato intorno, ho visto le persone che frequentavo ogni giorno e ho detto: facciamo tante chiacchierate, ma ancora non sono riuscito ad entrare molto nel profondo; eppure siamo solo in dieci in una connessione molto forte di gruppo. Poi mi sono reso conto che in città avevo cento relazioni del genere con cui passavo mezz'ora o un'ora a settimana. Ed ho capito quanto superficiali fossero tante di quelle relazioni. Quindi, penso che essere in un gruppo più ristretto a contatto con la natura rafforzi tanto questo desiderio e senso di connessione tra le persone e che sia l'unico modo di essere proprio in una comunità vera.
PHIL: Aggiungerei a tutto questo la parola “autenticità”, che ho trovato molto in questa comunità e che è completamente diversa dal mondo fuori. È bello per me essere qua per essere autentico con quasi tutti, perché, diciamoci la verità, non è sempre semplice essere autentici… in questo luogo sicuramente c'è più la possibilità di sperimentare l'autenticità. Poi, certe volte, fa male essere come si è, oppure vivere l'altro come è veramente, ma rispetto alla società dove ci sono certi schemi culturali, dove certe cose vanno fatte per dovere o per formalismo, qui possiamo sperimentare un po' del nostro voler essere più liberi, far vedere anche le nostre parti ombra o le parti meno belle di noi o anche quelle bellissime, ma che magari ci vergogniamo di mostrare e che non faremmo vedere a causa dei buoni costumi della nostra società. Quindi, questa possibilità di essere più autentico in questi anni a me ha riempito veramente molto.
DAVIDE: Vi faccio un'altra domanda, sempre su questo aspetto delle relazioni. Come comunità monastica benedettina viviamo la dimensione relazionale in modo molto forte. Noi siamo tredici e viviamo costantemente insieme. La consapevolezza di essere tutti insieme nello stesso luogo perché ci rivolgiamo tutti al Dio di Gesù Cristo è fondamentale, soprattutto nei momenti nei quali ci rendiamo conto che le relazioni tra di noi sono difficoltose. Quindi, ritornare a quello che è il motivo originario dell'essere in monastero, la propria vocazione, cioè la consapevolezza di essere stati chiamati da Dio per servire Lui e i fratelli, ci aiuta nei momenti più complicati. Per questo è molto importante coltivare la dimensione della preghiera, sia personale che comunitaria. Per voi quali sono i luoghi e i tempi nei quali non state solo in una relazione orizzontale, che è soggetta a tanti sbalzi di umore, a tanta varietà e anche a fragilità, nei quali riuscite a rinforzarvi come gruppo?
PHIL: Vorrei rispondere privatamente a questa domanda piuttosto che come gruppo, perché penso che nel nostro luogo ognuno abbia il proprio modo di trovare le soluzioni. Quando voi vi rivolgete a Dio, io mi rivolgo all'Universo. Penso che sia la stessa cosa in fondo, perché credo che tutte le religioni del mondo dicano che c'è qualcosa di più grande del singolo uomo. La preghiera per me è mettermi in meditazione. Dico: questo è successo perché c'era un motivo per cui doveva succedere, e ci medito sopra. Il mio lavoro più personale diventa trovare il modo per distaccarmi da quello che è successo, come posso osservare la sofferenza che mi ha procurato e far sì che si sciolga nell’osservarla. Se c'è un problema, lo osservi e cerchi di vederlo da fuori e intuisci che c’è qualcosa di più grande e che non lo puoi gestire. Vogliamo stare tutti bene ed essere uniti, anche se ci sono delle discrepanze tra le persone che sono spesso dovute a delle dinamiche psicologiche, a dei traumi o a delle incomprensioni… spesso può capitare che, malgrado questa intenzione di comunione, non si arrivi ad una soluzione e quello il momento per lasciare andare, per lasciare quella situazione in mano all'Universo ed essa si risolverà da sé.
TIBO: Questa domanda mi piace molto, perché sento che abbiamo la stessa natura tra voi e noi, dentro e fuori. Infatti, quando penso a voi questo argomento mi viene molto spesso in mente. È una cosa di cui parlo con la gente che mi chiede: chi sono loro lassù? Siamo due comunità, vogliamo tutti e due comunicare le stesse cose, ma per l’aspetto religioso per noi è più difficile, perché non abbiamo una visione comune tra noi riguardo a questa parola: “religione”. Ci sono tante persone da noi con diverse visioni del mondo, cosicché a volte è vero che diventa un po' caotico... Come facciamo per collegarci insieme? Sicuramente lo facciamo con strumenti come il “cerchio emozionale”. Ci colleghiamo su quello che sentiamo dentro di noi o sulla natura umana e sulla cura dei suoi bisogni e poi da lì, come ha detto Phil, sul senso che ognuno di noi ha di cura per la terra, per lo spazio, per gli altri, e ci fidiamo del fatto che la nostra natura umana è buona e che anche senza una direzione spirituale comune forte riusciremo comunque a stare insieme.
DAVIDE: Avete dei momenti nei quali praticate uno stesso “rito”? Possiamo usare questa espressione?
PHIL: Sì e no. Forse l’ideologia che ultimamente abbiamo condiviso è quella della meditazione. Ma quale meditazione? Tutti pensano normalmente ad una tecnica, magari alla meditazione Vipassana. Di forme di meditazione ce ne sono 100.000 diverse, ma in fondo di meditazione ce n'è una sola, che secondo me è quella di essere presenti a quel che si è e si fa e basta. Quindi, risponderei che ognuno di noi, almeno le persone più centrali del progetto, sono meditatori a proprio modo, e questo ci accomuna tutti sicuramente, perché ho osservato che siamo tutti meditatori, ma meditatori diversi: c'è chi ha fatto una strada, chi un’altra. C’è chi medita facendo Vipassana, chi stando semplicemente abbracciato agli alberi, chi medita nel fare le cose quotidianamente. Quindi, le persone hanno in comune un modo di essere meditativo, che però non è un rituale. È l'essenza della meditazione. Ma cos'è la meditazione? Potremmo parlarne ora, oppure potremmo anche non parlarne, perché la meditazione è nulla ed è tutto. Per me la meditazione è soprattutto silenzio, silenzio interiore e guarigione.
DAVIDE: Tibo, prima parlavi del cerchio emozionale. Puoi raccontarci qualcosa a tal proposito?
TIBO: Siccome la meditazione è uno strumento per stare, per studiarsi, per sentirsi, qualcosa che ci sembra molto importante è la comunicazione di quello che abbiamo dentro. Allora il cerchio emozionale è un'opportunità per noi di condividere come ci sentiamo, cosa abbiamo dentro e cosa è attivo dentro di noi. Usiamo il bastone della parola per dare spazio e tempo a ognuno di esprimersi. Credo che sia un momento chiave riconosciuto da tutti come importante per stare insieme, perché quando non lo mettiamo in pratica spesso la comunità si sfilaccia per qualche tempo. (…) Quando si parla di esprimere emozioni penso subito alla parola autenticità, di nuovo. Ci vedo tre passi. Il primo è la consapevolezza di queste emozioni, poi c’è l'accettare che si provano queste emozioni, il terzo passo è quello di comunicarle. Il terzo passo è molto complesso, perché devi non solo esprimerle, ma provare a farlo in modo semplice davanti agli altri, per evitare di non sfogarti solo per mezz'ora parlandoti addosso… Questo è troppo, ma anche questo è benvenuto nel cerchio emozionale, perché è uno spazio in cui anche le emozioni più difficili possono venire fuori. Però la sfida è imparare a esprimere le proprie emozioni.
PHIL: Per me personalmente non è di certo semplice aprirmi su qualsiasi cosa che succede davanti a persone sempre nuove. Fosse sempre il solito gruppo… magari sarebbe più semplice, ma qua girano tante persone. Noi includiamo tutti, quindi questo comporta un po' la difficoltà, per me, di potermi aprire veramente in autenticità con tutti, ma quello che voglio sottolineare di questo metodo del cerchio della parola è che quello che conta è semplicemente tirare fuori quello che ci fa star male e se qualcuno ascolta o meno alla fine non è così importante. Quello che conta è il fatto che l'hai portato alla luce davanti ad altre persone. Questo è già guarigione in sé perché hai trovato il coraggio di portare fuori qualcosa che non porteresti fuori altrove. (..) Quindi, trovo che sia uno strumento bellissimo, accostato alla meditazione. Se la meditazione ci fa trovare l'Uno e il Tutto, il cerchio mi fa trovare me stesso con gli altri, attraverso gli altri, quindi è una specie di meditazione anche questa alla fine. (…)
DAVIDE: (…) Per noi monaci benedettini è importante il confronto con una parola di istruzione, cioè il fatto che abbiamo il Vangelo e la regola di San Benedetto. In particolare la Regola viene commentata dal superiore della comunità per darci indicazioni condivise che offrano un orientamento dentro il quale tutti, in qualche modo, dobbiamo stare. Voi avete questa parte più “istruttiva”, quindi più legata ad una riflessione teorica e pratica, oppure no? Avete un progetto da condividere che si basa sulle esperienze di altri che vi hanno preceduti, su una tradizione, su dei maestri spirituali che in qualche modo seguite insieme e che considerate come dei punti di riferimento comuni? (…)
PHIL: Ci sono degli accordi interni che vogliamo seguire come comunità. Una carta di valori che si dovrebbero vivere all'interno della comunità e che dicono il nostro intento e la nostra missione. Abbiamo fatto riferimenti a certi passaggi del buddismo, perché, semplicemente, sulla via abbiamo trovato queste verità che potevano essere un po' come un faro, non come un’indicazione da seguire pedissequamente da parte di tutti. Noi crediamo che la verità più profonda che vogliamo trovare sia quella dentro di noi. Quindi, questi valori sono solo dei fari per andare a trovare la verità ultima che è Dio, l’Universo, la Liberazione. Quindi, non abbiamo dei regolamenti da seguire, ma abbiamo un faro. Se così posso dire, visto che ognuno parla una lingua un po' diversa, possiamo capire a livello energetico se questo faro sia in comune o meno, anche se poi viene verbalizzato con altri termini, con altre parole, ma dentro ognuno di noi si sente se c'è questa qualità umana o spirituale. Ecco, io preferirei parlare di qualità. Anche se magari uno lo dice con il nome di buddismo, un altro con quello di cristianesimo e un altro ancora di ateismo, ben poco ci interessa, perché se vediamo che quella persona ha dentro di sé quella qualità spirituale e umana e che sta andando nella direzione di quel faro, per noi va bene che faccia parte di questa comunità.
TIBO: La differenza è che noi non abbiamo queste regole, questa struttura. Abbiamo ispirazioni diverse sia a partire dalla rete degli ecovillaggi che dalle comunità che ognuno di noi ha visitato o contribuito a creare… è la bellezza e il caos di questo posto, questo fatto che andiamo tutti verso la direzione di questo faro e poi proviamo a trovare quello che funziona per ognuno di noi sulla strada.
PHIL: Possiamo dire che navighiamo a vista!
DAVIDE: Provate a darci qualche parola che indichi alcune virtù che si possono apprendere dal rapporto con il creato, per esempio la pazienza, la capacità di contemplazione e la profondità dell'ascolto? Ecco, se doveste dare un nome alla luce che questo faro manda, quale parola usereste?
TIBO: Io direi la parola usata fin dall'inizio: autenticità. Nel senso che nell'autenticità trovi tutto quello che sei. Quindi, immaginiamo che questo faro sia la propria natura umana in cui ci sentiamo bene e quindi, se vedere questo faro non è facile, più noi meditiamo e più lavoriamo su noi stessi e più questo faro lo vediamo bene e andiamo verso la strada giusta.
PHIL: Io porto i dieci Parami che arrivano dal buddismo e che sono il faro che abbiamo messo come visione sintetica della comunità. Sono: la generosità, la rinuncia, la moralità, il giusto sforzo, la forte determinazione, la saggezza, la verità, la tolleranza, il puro amore incondizionato e l’equanimità. Questi sono i fari e io quando riesco a vedere questi valori sviluppati nelle persone, allora dico che queste sono le persone con cui ho voglia di vivere in questo luogo e di far crescere questa comunità. Ho visto molte volte che ci sono persone che hanno qualità più sviluppate e altre meno sviluppate. Le persone che non hanno sviluppato queste qualità molte volte lasciano il posto, senza che nessuno sia mai stato escluso da qui.
DAVIDE: Vorrei fare un’osservazione, ovviamente dal mio punto di vista. Cioè, mi sembra che una cosa che non riesco ad afferrare nel vostro discorso sia la dimensione dell'insegnamento, che ci sia qualcuno che riporti una riflessione da condividere con altri che ascoltano e apprendono. Se penso all'esperienza del Buddha, di tutti i fondatori delle religioni e dei maestri spirituali, credo che questa dimensione sia importante. Voi pensate che qui non sia necessario oppure che sia qualche cosa che ancora deve maturare?
PHIL: Sono sempre più convinto che il vero maestro sia il silenzio, la natura, e che non ci sia bisogno di istruzioni, di libri, ma che nel silenzio, nella meditazione, nell'introspezione, nell'essere, trovi la verità di tutto, e quindi noi perché dovremmo metterci in difficoltà nel creare una nuova religione? Tutto è così semplice: la verità è nel silenzio.
(…)
DAVIDE: E quando ci sono esperienze di aridità, di fatica, di povertà spirituale, che succede? Quando tutti vogliono scappare via, quando sembra di aver perso il senso dello stare insieme, che succede?
PHIL: Infatti… tante persone se ne vanno.
DAVIDE: Ve lo chiedo perché penso che quello che sta dicendo Phil sia molto importante, ma mi sembra di un livello molto elevato, cioè che non sia da tutti o perlomeno che si possa raggiungere solamente dopo parecchie esperienze, parecchie pratiche spirituali, per cui sostanzialmente arrivati a un certo livello si possono abbandonare gli strumenti e si va liberi e autonomi… Ma in un'esperienza come la vostra, in cui accogliete anche persone che sono principianti… ecco, questa è la mia provocazione, forse ci vorrebbe qualche cosa di propedeutico che possa accompagnare queste persone anche attraverso parole che le aiutano a capirsi.
PHIL: Magari dopo questa intervista verrà fuori una nuova comunità! In questo momento vedo per noi due vie. O stiamo aperti a persone più evolute spiritualmente e andiamo su quella via e attraiamo persone che hanno già fatto un percorso spirituale e cresciamo insieme con loro verso la liberazione, oppure possiamo dare gli strumenti a chiunque e qua creiamo un nuovo movimento che potrebbe essere veramente articolato su due soli insegnamenti: a) vieni con me e vai nel bosco; b) stai zitto e ascolta il silenzio. Diamo solo queste due istruzioni come un nuovo modo di poter insegnare le cose, per non dover caricare troppo le persone. (…)
DAVIDE: Vorrei che approfondissimo il tema del silenzio, però prima vorrei sentire un attimo Tibo.
TIBO: Penso che noi non ci aspettiamo che la gente rimanga per un intero percorso di vita. Quindi, spesso arriva qualcuno e sappiamo già che questa persona rimarrà forse una settimana o due o al massimo sei mesi. Per noi va anche bene, perché lo scopo del posto non è di sopravvivere allo stesso modo per 30-40 anni e quindi accettiamo già che ci sarà un po’ di caos…
PHIL: … o cambiamento!
(PAUSA DI SILENZIO)
DAVIDE: Voglio ripartire dalla nostra esperienza. Ormai io e Pierantonio siamo da tredici-quattordici anni in comunità, i fratelli più anziani da trenta e chi addirittura da cinquanta anni e più e ci rendiamo conto sia per esperienza personale che anche da quello che ci raccontano gli ospiti che non è così facile né stare da soli né stare in silenzio. Allora, di fronte a una proposta come quella di Phil, “vieni, vai in natura e stai in silenzio”, io dico che è bello, ma… impossibile? Magari impossibile no, però credo che dobbiamo provare a chiarirci di che esperienza di silenzio stiamo parlando. Quindi, se puoi parlare della tua esperienza di silenzio e dirci quali sono le fatiche ad incontrare te stesso nel silenzio, te ne sarei grato.
PHIL: È proprio il silenzio che ti fa vedere te stesso e la tentazione è quella di scappare da se stessi. Le persone che vengono qui abbiamo notato che non sanno che stanno già scappando da loro stesse. E questo lo vedo anche negli abitanti stabili della comunità, quindi non solo nelle persone che vengono come ospiti. Il problema è che questo silenzio è dannatamente potente e fa scappare le persone. Forse per questo fino ad oggi questa comunità è ancora così poco sviluppata. Perché bisogna avere il coraggio di essere e di stare in questo silenzio e il luogo stesso te lo comunica, perché questo è un luogo di meditazione da più di 30 anni ed è impregnato di questa energia del silenzio. È questo che ho notato che fa andare in fibrillazione tante persone che magari restano un giorno, magari poche ore, alcune anche una settimana o più di un mese, però prima o poi diventa davvero tanto impegnativo, anche per me stesso, stare in questo silenzio. Posso dire che sono entrato negli abissi del silenzio ed è stato davvero tosto… Per silenzio non intendo solo il silenzio che si può immaginare in meditazione, ma è anche il dar voce a quello che arriva da dentro… Allora, per reazione, arriva il momento della mondanità, cioè quando tutti ricominciamo ad attivarci sulle piccole voglie: il gelato, la birra, la pizza, il libro, la Bibbia… voglio parlare con qualcuno, voglio avere una serata di musica, voglio suonare il mandolino, voglio ascoltare la radio in macchina, voglio la sigaretta, voglio accendere la luce. Sono tutte queste piccole cose che ci allontanano dalla verità più profonda. Tutti lo facciamo e tutti i giorni, di continuo. Non ce ne rendiamo conto, però qua si può “giocare” in questo bel parco giochi del silenzio interiore, per chi ha capito cosa sia il silenzio. Magari lo intuisci e scappi… Ma non è una cosa di cui parliamo con il gruppo grande, perché sono cose di cui si parla più al tavolo tra due o tre persone, come vecchi saggi... perché sono cose difficili da esprimere e delicate e devi averne fatto prima esperienza.
TIBO: Vorrei aggiungere che quello che vogliamo dare al mondo con questo silenzio è un po' come dire: qua non vieni al cinema a guardare un film, a cercare e ricevere euforia. Qui vieni a guardarti allo specchio, a scoprire nel silenzio le cose che ti fanno male, che non ti danno gratificazione, e a entrare in un percorso di trasformazione. Quello che vediamo come un obiettivo, una missione, è di poterci trasformare in modo più vicino alla nostra natura umana per trovarci meglio. Tutta un'altra filosofia rispetto alla distrazione.
DAVIDE: Devo dire che sono ammirato da quanto state dicendo, perché ne raccolgo la radicalità e la serietà. Mi sembra che il discorso sia sostanzialmente molto vicino a una ricerca mistica, cioè all’entrare in una profondità di incontro con se stessi che si apre al divino in maniera molto forte, senza mediazioni. Questo lo apprezzo davvero tanto, ma al tempo stesso vedo una tensione, che credo sia anche una fragilità: il percorso mistico è un percorso molto personale, proprio perché si tratta di un incontro personale con Dio, e questo dovrebbe collocarsi dentro il vivere insieme, con persone che hanno provenienze e storie molto variegate. Che cosa è più visibile a chi arriva qui: la ricerca mistica o la vita comune? Che valore ha l’ordinarietà per voi?
PHIL: Molte volte la vita ordinaria è quella più vista, mentre quella più profondamente spirituale non è vista così tanto… Chi viene qui pensa: che bello, cuciniamo insieme, coltiviamo l'orto insieme, creiamo l'autosufficienza energetica, ristrutturiamo le case. Questa è la modalità della vita normale, che pure qua è molto presente… molte volte il gruppo si perde in queste faccende: fare la spesa, fare le pulizie… Stiamo parlando proprio di cose quotidiane normali. Chi arriva per la prima volta probabilmente vede solo questo e non vede il resto. Tanti chiedono: cos'è questo posto alla fine? È pulire, lavare, fare seminari, realizzare tutti questi progetti? Sto ragionando anch'io adesso con voi…
(…)
TIBO: Credo sia molto importante parlare di cosa succede nelle azioni di ognuno, altrimenti ci perdiamo nelle parole. Direi che c'è la base, che sarebbe: cucinare, pulire, ecc…, cose che facciamo insieme ogni giorno e già questo è bellissimo. Poi c’è lo spazio per ognuno per coltivare la ricerca mistica. Mi piace questa parola. Coltivare la ricerca insieme e anche da solo. Non c'è un orario prefissato, per esempio dalle quattro alle cinque, in cui è scritto che devi stare in silenzio e studiare. Non c'è nessuno che ti tira a forza a farlo. Hai l'opportunità di fare questa ricerca. Poi c'è chi la prende e chi non la prende, ma c'è l'opportunità per fare questa ricerca, con lo studio o con qualsiasi altro modo, per esempio stando con gli alberi e sentendo quello che succede o sedersi o fare una pratica di movimento o studiare un argomento specifico. Insomma, cercare quello che ci dà vita.
DAVIDE: Ascoltando prima Phil stavo pensando alla nostra esperienza e a quanto questa dimensione, che lui ha chiamato mondana, sia per noi importante. Per un monaco benedettino la dimensione pratica della quotidianità e dell'ordinarietà del fare è molto importante, tant'è che una delle rivoluzioni spirituali che si attribuisce a San Benedetto è quella di aver nobilitato il lavoro: mentre prima di lui il lavoro era solo degli schiavi e i sapienti e gli spirituali pregavano, studiavano e meditavano, san Benedetto ha detto: no, i monaci devono lavorare perché - e torniamo qui alla questione del rapporto col creato - anche in questa dimensione del lavoro c'è una dimensione spirituale. Ecco, ascoltando Phil mi sembra di percepire una tensione tra questa attenzione all'aspetto mistico e quella più ordinaria. A me viene da dire, nel confronto con voi, che per noi benedettini è importante il richiamo ad andare più in profondità in questa ricerca mistica e che forse per voi, ascoltando noi, sia importante imparare ad apprezzare che nello stare insieme, nel fare le cose insieme, nel costruire insieme, c'è già anche la dimensione spirituale. Vi ritrovate in questa osservazione?
PHIL: Mi è venuta in mente un'altra cosa sulla questione del lavoro rispetto a quanto ho detto prima sulla mondanità. Sono due cose diverse. Per mondanità intendo fare certe cose per riempire dei vuoti. Invece, se tu riesci a stare nella presenza del lavoro, diciamo se uno sa essere presente nel lavare il bagno oppure nel tirare su un muro o nel coltivare l'orto con la massima presenza, già questa diventa pratica spirituale. Quindi, non lo stai facendo perché è un dovere o perché così sei visto meglio dagli altri… queste sono tutte fisse mentali. Se lo fai per questi motivi, allora stai alimentando una parte oscura di te. Invece, se sei nel pieno flusso della vita, i lavori diventano parte integrante della tua propria essenza e quindi il tuo essere si può esprimere nel pulire un bagno o nel pitturare una casa o nell’arte. Ci sono sempre due modi di fare le cose. Uno può scappare nell'arte perché c'è un problema di fondo con sé stesso oppure uno si esprime nell'arte perché è libero interiormente di farlo. Quindi, forse prima mi sono espresso male rispetto al senso della mondanità. Direi che è uno scappare nel fare le cose per non vedere qualcosa di sé. Noi qui in comunità lavoriamo tantissimo e spesso si lavora anche per scappare… Non è che siamo già arrivati alla meta qua, siamo in cammino. L’importante è ricordarsi dell'auto-osservazione. Siamo un gruppo e possiamo aiutarci a vedere come stiamo nelle cose che facciamo. (…)
TIBO: È un tema enorme quello che si è aperto adesso. È difficile questo tema, perché nella ricerca di un posto, di un ruolo, ci sono sempre due tendenze che ci spingono a sinistra e a destra. Quella di voler far parte di qualcosa di più grande, di essere insieme, ma anche il bisogno di scappare da sé stessi o di affermare se stessi. Quindi, in un ambiente in cui si lavora, ma anche si studia, a volte è difficile mettere insieme le due cose. Ma questa è la realtà da integrare. Perché se si trattasse solo di un ritiro di meditazione in cui sei seduto, mancherebbe l'integrazione della tua vita reale in cui ogni giorno devi fare le cose che fa la maggior parte delle persone.
PHIL: Forse l'insegnamento è proprio il navigare tra queste due dimensioni per avere il quadro completo. Se fossimo sempre in meditazione, ma poi mai ci confrontassimo con gli altri, potremmo dire: "Io sono illuminato, sono nella grotta", ma se appena esci fuori inizi a litigare con tua madre, vuol dire che sei stato nella grotta per dieci anni a meditare e a vedere Dio, ma non l'hai trovato veramente. Quindi, è buono andare un po' nella grotta e un po' stare con le persone, così che metti insieme le due cose e conosci solo una verità, che è Dio.
DAVIDE: Io direi che abbiamo detto un sacco di cose, anche molto impegnative. Mi sembra che siamo tutti contenti e anche un po' provati… Avete voi una domanda con la quale possiamo concludere?
PHIL: Più che una domanda, avverto un forte senso di gratitudine e amore profondissimo in questo momento. Sono felice di poter vivere questa esperienza di cui abbiamo parlato e di farlo vicino a voi. In fondo, se proprio devo dirla tutta, mi pare la stessa esperienza, quella nostra e quella vostra. Quindi, mi piacerebbe coinvolgerci di più in qualche modo nelle nostre rispettive ricerche, che, anche se non usano la stessa lingua, sono solamente due lingue diverse per la stessa ricerca.
(…)
TIBO: Anche io rimango molto grato di poter condividere con voi queste cose. Aggiungo che spesso penso a voi, mi chiedo cos'è che funziona da voi e che non funziona qua, o al contrario. È molto bello poterlo vedere con gli occhi. Penso che c'è molto da condividere per crescere noi come voi.
DAVIDE: Pierantonio, possiamo lasciare la parola a te per concludere?
PIERANTONIO: Anche io sento gratitudine per quello che avete raccontato di voi stessi, per l’espressione del vostro io profondo, espressione sincera, leale, significativamente autentica. Grazie! Credo che alla radice dell'esperienza spirituale ci sia proprio questo incontrare - per noi Dio, per voi il Mistero dell’universo - dentro un cammino di scoperta di sé sempre meno banale. Nasciamo e cresciamo infragiliti da tante cose e il compimento di noi è questa strada di purificazione per acquisire l'immagine più bella che portiamo dentro. In questo senso gli elementi “comuni” della natura e del silenzio sono per noi credenti i luoghi della prima forma di preghiera, cioè del desiderio di incontrare il Mistero che ci precede. È assolutamente veritiero che vivere il silenzio in natura sia un'arte della preghiera e della verità di sé. Quando si è guadagnato il silenzio interiore questo permane pur negli impegni della vita. Tutto è una possibilità che ci è data per arrivare a Dio. Oppure, viceversa, tutto è falsificato dal nostro io. Quindi, anche per noi monaci non è che pregare quattro ore al giorno sia la formula della verità, perché posso non essere lì mentre prego, posso banalmente recitare, posso essere stanco e distratto. Prego quando sono nella verità di me alla Presenza del Mistero. A volte noi cattolici abbiamo un po' troppo la tradizione delle regole, dello schema rigido… credo che si debba imparare la leggerezza. Io direi che tutto quanto serve, ma anche non serve, se mi inganna. Cioè tutto deve essere apertura, un faro per una verità che è al di là di noi e delle strutture. La verità è più grande, molto più grande di noi, ed è Dio.
DAVIDE: Anch'io voglio dire una parola conclusiva, perché mi è piaciuto tantissimo quello che ha detto Pierantonio. Per noi credo che ascoltare voi stimoli ad incamminarci ancora di più e forse meglio in un percorso di libertà. Io penso che ci sia dentro la vita religiosa istituzionale un po' la sofferenza di cercare la libertà, ma di non osare davvero viverla. Ecco, nell'incontro con esperienze come la vostra, avverto il richiamo ad osare di più il rischio della libertà. È proprio importante questa tensione alla ricerca mistica. Penso che davvero sia il cuore verso il quale tutti vogliamo incamminarci, ma che a volte un po' intrappoliamo questo cuore in sicurezze che non sono solo quelle che abbiamo lasciato nel mondo, ma che riportiamo anche in monastero. Ecco, quindi è stato davvero molto bello. Devo dire che torniamo in monastero con questo senso profondo di un incontro spirituale.
Tra gli animali che popolano quel mondo simbolico con cui le culture trasmettono esperienze e valori umani e religiosi, sicuramente il leone acquista un rilievo particolare. Fin dall’antichità si è percepita l’ambivalenza che trasmette questo animale nel suo linguaggio simbolico. Esso diventa emblema di coraggio, forza, nobiltà, regalità, ma anche di ferocia, di istinti indomabili, di cupidigia. E così l’iconografia del leone, che travalica tradizioni culturali e religiose, diventa articolata e complessa e in essa si sono stratificati significati tra loro contraddittori. Il leone è figura solare, di fuoco, di morte e di rinascita. La rappresentazione del leone è associata alle divinità o a contesti sacri – spesso è il custode delle porte, la sua presenza segna il passaggio dallo spazio cultuale a quello profano – oltre ad essere collegata a immagini e a ornamenti regali. Ma, allo stesso tempo, la figura del leone può essere interpretata anche in chiave negativa in quanto custode degli inferi o in relazione alle potenze demoniache.
Questo si riflette anche nel linguaggio biblico dove la figura del leone ha una valenza duplice e contrastante: da una parte come simbolo di vittoria regale e dall’altra come immagine del nemico che divora e da cui solo Dio può proteggere (pensiamo a Daniele nella fossa dei leoni oppure all’episodio di Sansone che squarcia un leone in Gdc 14,6). Celebre, nella tradizione cristiana, è il passo della prima lettera di Pietro: «Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5, 8). Alcuni passi della Scrittura che colgono nel leone la dimensione di regalità e forza hanno avuto una fortuna nella tradizione cristiana, arricchendone anche l’iconografia tanto da diventare uno degli emblemi più ricorrenti e pregnanti di Cristo (basta rileggere i testi didattico-moraleggianti quali il Physiologus e i vari Bestiari per rendersi conto della rilettura in chiave cristologica della simbologia del leone). In particolare possiamo ricordare l’episodio in cui il patriarca Giacobbe benedice il figlio Giuda riconoscendo in lui un giovane leone (Gen 49,9), episodio che nell’interpretazione cristiana diventa l’immagine di vittoria connessa alla tribù di Giuda, indissolubilmente legata alla presenza del Messia: «Non piangere: ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli», si legge in Apocalisse 5,5. Nella tradizione biblica, inoltre, il leone – unitamente all’immagine del vitello, dell’aquila e dell’uomo – è associato al tetramorfo, una presenza misteriosa che compare nelle visioni di Ezechiele in relazione al carro del Signore (Ez 1,10) e che sarà ripresa e reinterpretata nel libro dell’Apocalisse nella figura di quattro esseri viventi che risplendono davanti al trono dell’Altissimo: «In mezzo al trono e attorno al trono vi erano quattro esseri viventi, pieni d’occhi davanti e dietro. Il primo vivente era simile a un leone; il secondo vivente era simile a un vitello; il terzo vivente aveva l’aspetto come di un uomo; il quarto vivente era simile a un’aquila che vola» (Ap 4, 7). I Padri della Chiesa riconosceranno nelle figure dei quattro esseri viventi quelle degli evangelisti posti davanti al trono di Cristo, un’interpretazione che troverà pieno riscontro già nell’arte paleocristiana. E all’evangelista Marco sarà associato il simbolo del leone.
Ma anche i santi entrano in relazione con questo animale. Lo ritroviamo presente in vari scritti agiografici e, obbedendo in qualche modo al suo carattere ambivalente, il leone si pone di fronte al santo o come nemico contro cui combattere o come compagno riconciliato che si pone a servizio. A ricordo dell’episodio biblico di Daniele nella fossa dei leoni, la ferocia di questo animale fu utilizzata per piegare la costanza dei martiri. Negli Atti dei martiri o nelle loro leggende i leoni pronti a divorare i fedeli di Cristo diventano il simbolo del potere demoniaco che tenta di distruggere la fede cristiana. E così i leoni entrarono anche nella iconografia di alcuni santi martiri, come Tecla, Eufemia e soprattutto Ignazio di Antiochia. In età molto avanzata Ignazio è condannato a morte dall’imperatore Traiano. Durante il viaggio alla volta di Roma, nel mezzo di una sosta a Smirne, ha la possibilità di incontrare Policarpo, suo condiscepolo e ora vescovo della città. Viene dato in pasto ai leoni nell’anfiteatro Flavio (Colosseo) durante i giochi delle festività dell’anno 107. Lui stesso aveva predetto questa morte quando scrisse in una lettera: «Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo delle quali mi sia dato di raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo. Se subirò il martirio, ciò significherà che mi avete voluto bene. Se sarò rimesso in libertà, sarà segno che mi avete odiato».
Nel racconto leggendario del martire san Mamas di Cesarea si opera una sorta di conversione nel leone: l’armonia che regnava nell’Eden tra animali e uomo si trasmette al martire e trasforma la ferocia del leone in docilità. Infatti san Mamas è raffigurato nelle icone mentre cavalca un leone. Come narra la sua leggenda, nascostosi per sfuggire alle persecuzioni, Mamas era vissuto in mezzo ad animali selvaggi, orsi, tigri, leoni, che da lui erano stati nutriti e difesi. Un leone, in particolare, si era affezionato e da Mamas era stato incaricato di venirgli in aiuto nel momento in cui sarebbe stato condotto al martirio. Quando Mamas fu arrestato e condotto nell’anfiteatro per essere ucciso, dalle montagne scese il leone e seminando panico e terrore, si avvicinò con rispetto al santo che lo invitò a ritornare nella foresta. Liberato un altro leone dalla gabbia per divorare Mamas, la belva «appena vide il santo, gli si gettò ai piedi – narra il racconto agiografico – e incominciò ad accarezzarlo; si sarebbe detto che era stata inviata più per consolarlo che per ucciderlo. Così gli animali più feroci rivelano che l’umanità era passata nel cuore delle bestie, e la ferocia delle belve nell’anima del tiranno».
La figura del leone che diventa compagno di un santo caratterizza soprattutto la letteratura agiografica monastica. Il monaco, come colui che è pacificato con Dio, unito interiormente e capace di comunione, riesce a trasfigurare ogni relazione, anche le più conflittuali, riportando in esse una armonia di pace e di perdono. Ogni violenza viene dissipata e tutto è riconciliato in Dio. Anche la ferocia del leone si trasforma in forza positiva e la misericordia del santo ne annulla il potere distruttivo. E così scopriamo nella vita di alcuni santi monaci come il leone diventa un aiuto per il santo. San Girolamo, nella sua Vita di San Paolo eremita, ci narra che due leoni aiutarono Antonio il Grande a seppellire il corpo di Paolo. Un episodio simile è narrato nella vita di sant’Onofrio e in quella di santa Maria Egiziaca. Nella vita di san Macario il Romano è descritto lo stupore (e forse anche un po’ il terrore) di tre visitatori che giunti alla grotta del santo scorsero accanto a questo vegliardo, coperto di capelli e barba bianchissimi, due leoni che gli facevano compagnia e lo difendevano. Di fronte alla paura dei visitatori, Macario - narra la Vita - «mise le mani sula testa dei leoni e accarezzò loro il collo. Poi disse. “Miei piccoli, sono tre fratelli che sono venuti a renderci visita dal mondo. Vi prego di non fare loro del male”. Poi aggiunse: “Avvicinatevi e non abbiate paura”».
L’uomo pieno di misericordia, come Macario, non ha più paura della ferocia dell’animale; e l’animale che si sente accolto dalla misericordia dell’uomo di Dio depone ogni forma di difesa e di violenza. È questo il senso del racconto trasmessoci da Giovanni Mosco nel suo Prato Spirituale e che si riferisce al monaco Gerasimo, vissuto come eremita presso il Giordano. Si narra che un giorno si avvicinò al monaco un leone che zoppicava. Gerasimo vide che aveva una grossa spina in una zampa, gliela estrasse e medicò la zampa. Da allora il leone lo seguì fedelmente come un cagnolino, e divenne il compagno di un asino che trasportava l'acqua per il monastero. Quando alcuni predoni rubarono l'asino, il leone tornò da solo da Gerasimo che, pensando che avesse mangiato l'asino, lo incaricò di trasportare l'acqua, e il leone accettò docilmente. Qualche tempo dopo i ladri tornarono portando con sé l'asino e tre cammelli, il leone li assalì mettendoli in fuga, poi prese le briglie dell'asino e dei cammelli e li portò dal santo, che si scusò con lui per la punizione ingiusta che gli aveva dato. Il leone visse con i monaci per cinque anni e, quando Gerasimo morì, si fermò sulla sua tomba battendo il muso a terra, senza mangiare né bere fino a morire d'inedia.
Questo episodio è stato riportato di sana pianta da Jacopo di Varazze nella sua Leggenda Aurea, ma attribuito erroneamente a san Gerolamo. Ecco perché nella iconografia spesso san Gerolamo viene rappresentato come penitente, in una grotta, con un leone accovacciato ai suoi piedi. Al di là dell’errore di attribuzione, il leone ai piedi di San Gerolamo può assumere ugualmente un valore simbolico per il nostro santo: il carattere focoso e fiero di Gerolamo è come ammansito e il leone in questo caso è simbolo delle passioni domate e mette in luce le virtù del santo che è riuscito a placare l’istintiva aggressività dell’animale (e forse ad addolcire un po’ anche la sua).
Colui che ha recuperato pienamente la sua umanità in Cristo partecipa della sua stessa vittoria sul male e in lui ogni creatura ritrova la sua vera vocazione: essere segno della bontà di Dio, a lode della sua gloria. Allora non c’è più conflittualità, ma tutto è riconciliato in Cristo. Così aveva preannunciato il profeta Isaia contemplando da lontano i tempi messianici: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare» (Is 11, 6-11).
Dove si trova il tuo eremo?
Il mio eremo si trova in Piemonte nella diocesi di Saluzzo (CN). È un eremo urbano nel centro diocesano, concordato con il vescovo (ex-casa dei miei genitori con biblioteca religiosa di 3000 volumi).
Da quanto tempo sei diventato eremita?
Ho 73 anni, celibe, e sono diventato eremita di fatto con voti privati verso i cinquant'anni, nell'anno 2000. Lo sono poi diventato di diritto emettendo la Professione dei consigli evangelici pubblica, solenne e perpetua nella condizione laicale, il 15 settembre 2022 nella cattedrale della mia diocesi di Saluzzo.
Come hai maturato la tua vocazione?
La mia vocazione è iniziata fin da bambino, con episodi eloquenti della mia fanciullezza che ho descritto nel Progetto di Vita approvato dal vescovo. Ho ricevuto continue conferme fino ai 50 anni d'età e oltre, anche durante la mia formazione culturale (laurea a Torino in Filologia Medioevale e Critica del Testo, Dottorato di Ricerca in Esegesi all'Università Cattolica di Milano, frequenza del Seminario della mia diocesi e dello Studio Teologico Interdiocesano). Il clero diocesano vedeva gli eremiti laici come alieni inquietanti, ma dopo la mia Professione si è mostrato fraterno e amichevole.
Come è stato il tuo percorso per diventare eremita?
Il mio percorso spirituale, valutato dai vescovi che si sono succeduti, è iniziato con la conoscenza di un eremita coetaneo Passionista, nella mia diocesi. Dopo i voti privati ho visitato una ventina di monasteri e conventi sia in Italia che in Austria, sia di vita contemplativa che di vita attiva. Dopo sette anni trascorsi in preghiera e meditazione ho scritto un libro di mistica e dopo sedici anni di voti privati ho scritto alcune Voci su Cathopedia (enciclopedia cattolica online) fra le quali: it.cathopedia.org/wiki/Eremita, it.cathopedia.org/wiki/Direzione_spirituale.
Hai un riconoscimento da parte della chiesa locale in quanto eremita? Se sì, questo comporta la partecipazione a momenti ecclesiali particolari?
In quanto laico, la mia Professione perpetua comporta solo gli obblighi comuni a tutti i consacrati laici, con particolare attenzione al Magistero specifico per gli eremiti, secondo il dettato degli Orientamenti pubblicati dal Dicastero romano per la Vita Consacrata nel 2021. Per il resto ci sono solo dei consigli e degli inviti:
- l'uso assiduo della cocolla della mia vestizione (nera nel mio caso) “abito segno della sua consacrazione”, come recita il Magistero per gli eremiti;
- la celebrazione privata della Liturgia delle Ore;
- lo studio esegetico della Sacra Scrittura e assidue letture spirituali;
- frequentazione degli appuntamenti settimanali di aggiornamento del clero diocesano
- accompagnamento spirituale per chi lo chiede espressamente (a questo scopo ho scritto la seguente Voce su Cathopedia: it.cathopedia.org/wiki/Direzione_spirituale);
- alcuni laici stanno valutando la possibilità di iniziare un corso sulla Lectio Divina guidato da un eremita.
Come è organizzata la tua quotidianità (preghiera, lavoro, studio, riposo)?
La mia quotidianità: sveglia alle ore 3,00 per l'Ufficio delle Letture. Riposo. Seconda sveglia alle ore 6,00 per Ora Prima e Lodi. Durante le 24 ore: otto ore di preghiera, specialmente intercessoria su richieste esterne, Liturgia delle Ore, adorazione, S. Messa quotidiana, Lectio Divina, meditazione contemplativa. Sette ore di lavoro intellettuale, corrispondenza, letture spirituali, scrittura di articoli ascetici, approvvigionamenti alimentari e beneficenze personali verso i poveri e il Centro Aiuto alla Vita, in città. Due ore per due pasti al dì che cucino da me, con una dieta ipoglucidica e ipolipidica ricca di fibre. Sette ore di sonno: ore 22-3,00 e 4,00-6,00.
Come ti sostieni economicamente?
Il Magistero prevede che gli eremiti laici si mantengano autonomamente, perciò provvedo a me stesso con i risparmi personali dai tempi della mia vita lavorativa, investiti in modo da permettermi anche qualche beneficenza. Così non gravo sulla diocesi e non devo andare a caccia di benefattori: è una grande libertà.
Hai mantenuto rapporti con il mondo circostante? In che forma (ad esempio, con incontri personali, mezzi di comunicazione digitali, ecc…)?
Col mondo circostante, essendo laico, mantengo anzitutto gli impegni obbligatori per la sopravvivenza: disbrigo di pratiche burocratiche personali, acquisti, contatti telefonici e online con Enti gestori di servizi e Uffici ai quali è tenuto ogni cittadino; poi ci sono contatti con alcuni amici d'infanzia e scambio di visite con i parenti. Però non basta, perché l'esercizio delle opere di misericordia spirituale è prescritto a tutti i battezzati: il mio eremo non ha foresteria, quindi rimedio a questa mancata carità col rendere nota la mia mail (eremita.c.951@gmail.com) in funzione di “campanella”: chi vuole mi contatta e ci si scambia la carità di un ascolto profondo.
Qual è il senso spirituale della solitudine che hai scelto di vivere e che vuoi comunicare agli uomini e alle donne di oggi?
C'è la solitudine del misantropo, vissuta come un incidente, come un ripiego, o come un rifugio: molti non sanno che quel rifugio è colmo di esalazioni paralizzanti. C'è poi la solitudine dell'eremita, innamorato di Dio e dell'umanità (altrimenti non è un vero eremita). Questa solitudine non è un appartarsi dal mondo per abbandonarlo definitivamente a sé stesso, alla “hikikomori”[1], ma è un appartarsi solo per trovare ciò che il mondo gli impediva di trovare. Quindi la solitudine dell'eremita è un mezzo, a volte temporaneo, suggerito da Dio per conseguire scopi testimoniali e medicinali.
Qualcuno commenta: “Oggi è più utile una vita missionaria tra le povertà del mondo, che una vita penitente solitaria”. La risposta è facile: “Perché si vuol giudicare fra Mosè ed Elia nella grotta, fra gli attivissimi apostoli e l'eremita Giovanni Battista? Tutti loro piacquero egualmente a Dio”. C'è chi vuol vedere, nel riconoscimento della vita eremitica, solo un appoggio canonico per sacerdoti censurati o per religiosi exclaustrati, svilendo così una vivace storia millenaria che vivificò entrambi i polmoni della Chiesa, a occidente e a oriente. Il Magistero recente chiede invece agli eremiti di “contrastare radicalmente le logiche della mondanità” e ciò fa dell'eremita una sentinella “liminare”, sul “limen” cioè sulla soglia, del cortile mondano, dove osserva ed è osservato, pronto alle domande e a intercessioni incessanti, in difesa del popolo di Dio.
Come il silenzio diventa per te luogo di comunione con Dio e con il prossimo e non di abbandono, di esclusione e di insignificanza?
Come il silenzio diventi luogo di comunione con Dio e con il prossimo riguarda la chiamata al silenzio meditativo, che è sacro: essa viene rivolta da Dio non solo a certi consacrati, ma a ogni persona, anche se in modi diversi. Purtroppo il mondo e talora anche il clero non spiegano la sua importanza. Si tratta di un lungo cammino di ascolto, per condividere il quale ebbi l'ispirazione di scrivere un libro che ha avuto varie edizioni in Italia e un'edizione polacca: Un eremita, Introduzione alla Orazione Mistica, Effatà Editrice. Nell'attuale società tecnocratica e materialista, piena di musica(-ccia) onnipervasiva e di baccano mediatico insolente, il silenzio meditativo ha la funzione di ridare nuova dignità alla persona, perché obbliga a fare i conti con la propria coscienza, la grande addormentata. Inoltre il Signore quando parla sussurra e nel chiasso non si sente. Solo nella meditazione matura la vita vera, quella fatta
di conversione profonda, di amore senza tornaconto, di liberazione, di sacrificio.
Perché credi che la preghiera (per esempio la preghiera del cuore e l’esychia) possa contribuire alla salvezza del mondo, specialmente in questi tempi così bellicosi?
L'esicasmo è una condizione orante che ha dei parenti per preparargli la strada: la tapeìnosis[2], la xéniteìa[3], la kénosis[4], l'aghia nékrosis. Tutto ciò costituisce l'abito della preghiera ascetica per il vero eremita, ma ogni essere umano dovrebbe maturare con queste preparazioni, proprio come si forma alla vita lavorativa con l'apprendistato.
Ascesi vuol dire allenamento nell'amore per Cristo e per il prossimo, sentendosi avvolto dalla continua presenza di Dio nella gratuità e nella verità di se stesso. Ciò contribuisce potentemente alla salvezza di una umanità che insegue invece la tachyoyrgìa - cioè le agitazioni parossistiche di un mondo alienato -, l'amore senza verità e la verità senza amore, la spiritualità con una presenza di Dio davanti agli occhi ma non nel cuore; una fede in Dio senza gratuità né oblatività. Quindi per me, l'hesychia ha la stessa importanza dell'ossigeno, senza di essa mi sento soffocare come se avessi un broncospasmo. Il mondo “bellicoso” sta dimostrando la stessa cosa.
Vivi o hai vissuto dei momenti di fatica, di incostanza?
Senza fatica e dolore non c'è gioia. I momenti di fatica sono molti tutti i giorni, né - date le mie letture ascetiche - mi aspettavo diversamente. Essi sono però fonte di speranza e, quando si risolvono con qualche grazia evidente, diventano anche fonte di gioia, per chi si sa voluto e amato. Un eremita non vive di vita angelica, rimane peccatore e il demonio mai cessa le sue vessazioni: ogni eremo è proprio la trincea nella quale si svolge, in piccolo, una battaglia cosmica tra vita e morte spirituale. Vivo nel paese dove sorge la Comunità Cenacolo di suor Elvira, casa di accoglienza per tossicodipendenti: molti di loro sono già diventati ottimi sacerdoti. È una colossale testimonianza. Secondo me ogni foresteria, conventuale o eremitica, dovrebbe porre al suo ingresso tre cartelli: “Dio non sceglie i migliori, ma rende migliori quelli che sceglie”. “Non tutti i santi hanno cominciato bene, ma tutti hanno finito bene”. “Ogni santo ha avuto un passato e ogni peccatore ha un futuro”.
Come ogni eremita sa, i quotidiani combattimenti dell'anima ripetono tutti i temi della teologia spirituale: ebbene, in essi ho sempre ricevuto la grazia di veder rimanere saldo il mio rapporto personale con Cristo (il Magistero consiglia acutamente agli eremiti la lettura della “Imitazione di Cristo” ancor oggi molto venduta). È quello l'unico rapporto capace di reggere e di indirizzare tutto il cammino ascetico sulle orme del Maestro: anche lui sovente, allontanandosi dai discepoli, si appartava per colloquiare col Padre.
Potresti raccontare un episodio di gioia che vorresti condividere?
Racconterò un episodio di gioia e uno di tristezza. Quello della gioia: un giorno un laico dell'Azione Cattolica mi apostrofò: “Insomma, non sei né carne né pesce, né sposato né sacerdote, unico cocollato in mezzo a preti tutti in borghese, alla fine sei come una suora senza comunità: ti rimane solo il nascondimento!” Io sorrisi e tacqui, perché una letizia improvvisa mi serrò la gola. Avevo capito finalmente, dopo tante suppliche al Cielo, che mi era stato concesso il dono ambìto della kénosis, lo svuotamento della mia rispettabilità, e anche dell'aghia nékrosis, la santa mortificazione che uccide l'uomo vecchio. La gioia mi durò per alcune settimane, prima di diminuire gradualmente.
Ma condivido anche un episodio che mi lasciò triste. In una riunione, un mio diretto di mezz'età, se ne uscì con questa frase: “Sei il miglior direttore spirituale che ho incontrato nella mia vita”. Mi vennero subito in mente le parole del Padre del Deserto Abba Zosima, maestro di san Doroteo di Gaza: “Chi ha offerto a santo Stefano la sua gloria, se non quelli che l'hanno lapidato? Così si può riguadagnare da chi parla male di noi, quanto abbiamo perduto a causa di quelli che ci lodano”.
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[1] Hikikomori (dalla lingua giapponese, significa "stare in disparte") è un fenomeno psicosociale che descrive un ritiro sociale estremo e volontario, in cui una persona si isola dalla società per un periodo di almeno sei mesi, rifiutando ogni contatto con il mondo esterno, scuola e lavoro. Questo comportamento è spesso associato a fattori come pressione sociale, vergogna, ansia, e può portare a conseguenze significative come depressione e dipendenza da internet.
[2] Abbassamento.
[3] Estraneità dal mondo e dalla società dominante.
[4] Svuotamento.
Riprendo in mano Come un atomo sulla bilancia, il libro di Don Luisito Bianchi (1927–2012), ripubblicato nel 2005 per Sironi editore, in un momento in cui la cosiddetta letteratura industriale sembrava esaurirsi. Solo pochi anni prima, nel 2002, Ermanno Rea pubblicava La dismissione, struggente cronaca dello smantellamento dell’Ilva di Bagnoli: uno degli ultimi grandi romanzi sul mondo del lavoro industriale.
Sono temi a cui mi sento intimamente legato. Ivrea, la città da cui vengo, assieme a Milano e al suo hinterland, fu uno dei laboratori più intensi del racconto del lavoro nel secondo dopoguerra. Al liceo, tra i testi estivi consigliati, non mancavano mai alcuni “classici olivettiani” come Donnarumma all’assalto. Poi, per anni, non abbiamo più avvicinato questi temi: le fabbriche sembravano appartenere a un tempo svanito, sciolto come qualcosa di antico, di vecchio come l’Unione Sovietica e gli altri antichi universi ideologici. Le produzioni si spostavano altrove, invisibili, negli angoli remoti del Sud globale.
Di recente, inaspettatamente, alcune domande hanno cominciato a riaffiorare. Le credevo archiviate nei cassetti della storia e invece tornavano, come voci familiari che si ripresentavano con un tono diverso.
Durante i giorni del ritiro per la professione solenne a Urbino, mi imbatto in una mostra dedicata a Paolo Volponi, dirigente d’azienda alla Olivetti e importante scrittore di letteratura industriale, e quei vecchi libri del liceo - letti un po’ per dovere, un po’ per curiosità - sembrano d’un tratto tornare vivi. Poco dopo, ascolto alla radio un’inchiesta su Taranto, su quel suo faticoso equilibrio tra lavoro e salute, tra acciaio e futuro; l’elezione di papa Leone, con un nome che pare rievocare in qualche modo la questione operaia; il referendum di giugno 2025 ... segnali sparsi, ma che insieme compongono qualcosa. Come se attorno alla questione del lavoro non fosse calato davvero il silenzio.
Quando la comunità mi propone di scrivere un articolo su Don Luisito Bianchi, sento che il filo è ormai teso. Scelgo allora di riprendere in mano Come un atomo sulla bilancia, lasciando da parte le sue liriche pagine dedicate al mondo agricolo cremonese del dopoguerra.
Di Don Luisito, qui in monastero, abbiamo letto quasi tutti La messa dell’uomo disarmato. Ce lo siamo passati come si fa con i libri che entrano a far parte della casa: sottolineato, amato, meditato in cella. È una voce che ci è familiare, e che per molti di noi ha significato qualcosa, e che è giunta a noi soprattutto attraverso il legame con le monache di Viboldone. Questa volta torno a lui da un’altra porta: quella della fabbrica.
Don Luisito, ordinato sacerdote nel 1950, è stato insegnante, traduttore, operaio, benzinaio, inserviente di ospedale. Per un certo tempo è stato anche cappellano delle nostre sorelle benedettine di Viboldone: è da lì che, come comunità, ci siamo avvicinati a lui, forse non tanto come a uno “scrittore” ma come a una figura sorella, familiare nella sua marginalità.
Alcuni suoi inni liturgici - soprattutto quelli dell’Avvento - continuano a risuonare nelle nostre celebrazioni, e a offrirci parole che sanno tenere insieme la speranza e la fatica. È anche così che la sua voce poetica ci è diventata prossima: nella preghiera condivisa.
Tornando a leggere Come un atomo sulla bilancia, mi ha colpito come alcune riflessioni di Don Luisito tocchino in profondità anche interrogativi che attraversano la vita monastica, soprattutto nella nostra tradizione benedettina. Una tra tutte: il lavoro come luogo di relazione e di santificazione. È un tema radicato nella storia del monachesimo, che nel racconto-diario di Don Luisito riemerge in forma nuova, concreta, vissuta, a tratti inquieta. Uno dei passaggi che più mi ha scosso è il suo racconto di una Pasqua passata in monastero, che si rifrange come in uno specchio sulla sua esperienza in fabbrica. Scrive:
“Mi aggrappo alla bella funzione del monastero, frequentata da gente con il palato forte, che vuole un tonico robusto, tutto in regola. Ma con la fabbrica ho perso ogni commozione; in cambio è cresciuto l’amore per questi monaci che ne dovranno passare di travagli. Ricerca egoista, forse, ma necessaria: per dire a me stesso che ho passato la Pasqua come si conviene. So di alimentare una dicotomia senza soluzione, rifugiandomi in una chiesa che annuncia Cristo a chi già sa - e si illude, così, di annunciarlo al mondo.”
In queste righe ho ritrovato il peso di una tensione che ci abita anche oggi: quella tra il dentro e il fuori, tra la liturgia e il mondo, tra la consolazione della preghiera e la quotidianità del lavoro.
In un altro passaggio, altrettanto indimenticabile, l'autore racconta il Sabato Santo vissuto in fabbrica. Tra il rumore delle macchine, il fango della pioggia e una vecchia utilitaria da riparare con un rotolo di nastro isolante, prende forma una vera liturgia dell’attesa. La stanchezza e l’assurdità di un lavoro che “non dice proprio niente” vengono riscattate da un sentimento inaspettato di gratitudine e comunione. E mentre l’orologio della fabbrica “macina, fra i suoi ingranaggi, l’antica sapienza di Qohelet, figlio di David”, Don Luisito annota:
“Un sabato santo è sempre un sabato santo perché, fra qualche ora, si comincia una vita nuova anche se sarà la vita di prima [...] Non mi sento utile per questo. Il sabato santo arriva addosso senza merito, solo perché, anche in Quaresima, la terra fa il suo giro, come nelle altre stagioni, e tutto comincia e tutto finisce.”
È forse in questa umiltà radicale - nell’esperienza di un senso che non si può forzare, ma solo accogliere - che si apre un varco spirituale autentico. Una mistica feriale, che sa cogliere anche in un gesto fatto con il nastro isolante o in una battuta tra colleghi la vibrazione di una Pasqua che si prepara silenziosa.
Rileggendo questi appunti così vivi e concreti, mi torna alla mente il passaggio della Gaudium et spes, in cui le attività economiche e lavorative dell'uomo vengono lette come "vocazione integrale dell'uomo" (GS 34). È come se il suo diario fosse una parafrasi vivente, una traduzione feriale di quelle parole del Concilio Vaticano II, restituendo alla Chiesa una domanda a cui non è possibile sottrarsi, proprio come faceva il monachesimo primitivo invitando il monaco al lavoro.
Si risvegliano così nella lettura domande che credevo sopite, ma che invece riaffiorano con forza attorno a noi oggi: quale rapporto può esistere tra lavoro e rispetto dell’ambiente? Come possiamo pensare a una società che valorizzi il lavoro senza mai dimenticare la dignità umana? E soprattutto, quale esempio può offrire il lavoro monastico in questo tempo complesso? Don Luisito sembra dirci che ancora oggi può esserci un qualche legame tra officina e monastero, come proponeva san Benedetto stesso nella sua Regola (cfr RB IV,78).
Secondo un’interpretazione ormai abbastanza assodata e condivisa, il Salmo 50 sarebbe la prima parte di un “dittico spirituale”: la critica profetica da parte di Dio vorrebbe aiutare il salmista a prendere coscienza della propria incoerenza e doppiezza; il salmo successivo – il famoso Miserere – sarebbe l’espressione consapevole del proprio peccato e del proprio desiderio di conversione. Nate inizialmente in modo distinto e autonomo, le due composizioni sono state avvicinate e rielaborate, anche attraverso un vocabolario specifico comune. Si tratta, in ultima analisi, di un rib¸ una disputa giudiziaria tra il Signore e il suo popolo senza intervento di un giudice esterno. Il nostro salmo è il primo del cantore Asaf, che assurge a voce critica mentre il Salmo 51 è proprio di Davide, additato più come fratello che come sovrano ed esempio.
Questa una possibile suddivisione del salmo:
vv. 1-6: convocazione del popolo alla presenza del Signore;
vv. 7-15: prima parte del discorso: il rifiuto dei sacrifici;
vv. 16-23: seconda parte del discorso: la denuncia.
Vv. 1-6: è il Signore che prende la parola e convoca il suo popolo, i suoi «fedeli» (v. 5). La descrizione è solenne, perfino impressionante: tutti sono chiamati ad ascoltare e il clima che viene ripresentato è il medesimo di quello della teofania del Sinai (cfr. Es 19-24). Una parola “infuocata”, «un fuoco divorante, una tempesta» (v. 3bc) per richiamare Israele all’alleanza. Massima attenzione!
Vv. 7-15: cosa dice il Signore? Sorprendentemente, la sua parola non mette sotto la lente di ingrandimento un qualche atteggiamento morale inadeguato o addirittura peccaminoso, non rivendica nemmeno una scarsa devozione nei suoi confronti. Si riconosce anzi una espressione cultuale molto intensa e generosa, regolare (cfr. v. 8), tipica modalità relazionale diffusa abbondantemente nell’antichità, in moltissimi popoli e religioni. Quello per cui il Signore vuole parlare, testimoniare contro Israele (cfr. v. 7) è piuttosto la mentalità “commerciale” sottostante a questo tipo di culto.
Innanzitutto Dio invita attraverso espressioni iperboliche e forti a offrirgli non sacrifici animali (cfr. vv. 9-13) ma di «lode, di tôdāh» (v. 14a). Il popolo è invitato piuttosto a rendere grazie, nella consapevolezza che tutto proviene da lui; non si offre qualcosa al Signore, quasi avesse bisogno del nostro applauso o della nostra approvazione. Lui ci dona tutto e quindi si «sciolgono i voti» (v. 14b), gli impegni vengono felicemente rinnovati nel tempo. A questo atteggiamento di lode viene suggerito di accompagnare quello della supplica: ogni persona, ogni popolo è sempre bisognoso di misericordia e il Signore si compiace di liberare il povero, di essergli vicino nelle vicende della vita. Si inverte, pertanto, la sequenza che spesso caratterizza il credente: a una richiesta di aiuto si antepone il ringraziamento, cui si fa seguire una meglio motivata e fiduciosa richiesta di aiuto nelle difficoltà che culmina in una rinnovata lode (cfr. v. 15).
Vv. 16-23: la seconda parte del salmo non si rivolge più – almeno apparentemente – al popolo, ai fedeli, ma al malvagio (v. 23). È un altro destinatario o non piuttosto un approfondimento nell’analisi e nel discernimento delle situazioni? Si sta parlando a un singolo o forse va riconosciuta a costui una dimensione collettiva, come sembra evidenziare il passaggio dal singolare al plurale del v. 22? Comunque sia, la prima e principale osservazione/accusa che viene rivolta è quella della falsità, della doppiezza, della menzogna. A una promessa esteriore di fedeltà ai comandi del Signore (cfr. v. 16) viene affiancata una effettiva pratica di atteggiamenti peccaminosi – furto, adulterio, maldicenza (cfr. vv. 18-20) –, sottovalutati nella loro gravità. Si leva pertanto forte e diretta l’accusa di coerenza; meglio ancora, ci si rivolge al malvagio “sfidandolo”, quasi che abbia tentato di associare il Signore stesso nella sua meschina trama: «Forse credevi che io fossi come te?» (v. 21b).
Uno dei “guai” della vita spirituale è quello di illudersi di procedere in modo corretto perché l’apparenza dell’osservanza di alcuni precetti viene salvaguardata. Ma come diceva già Isaia: «Questo popolo si avvicina a me con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (29,13). Dio non vuole condannare ma aiutare l’uomo “malvagio” a liberarsi della sua ipocrisia. Giustamente, qualche commentatore mette in evidenza come la richiesta non sia immediatamente di conversione e coerenza – ovvio, quello è il fine – ma anzitutto di poter “capire” (v. 22), di «entrare in una dimensione sapienziale, che si faccia carico della gravità del male commesso a motivo delle sue componenti perverse, e che assuma la consapevolezza della severa minaccia che pesa sul peccatore. […] Prima di incamminarsi sulla retta via, il peccatore deve fare dunque un percorso interiore di verità, rendendosi conto della propria colpa e delle conseguenze del male perpetrato e domandando perdono a Dio».[1] La richiesta di perdono coincide quindi con il riconoscimento della volontà di bene da parte di Dio.
In questa seconda parte il tono passa dunque da un livello profetico a uno più sapienziale ed educativo. Non si punisce ma si ammonisce per una lode più libera e matura (cfr v. 23).
Il salmo 50 (49) mette davanti un volto di Dio che non è affatto quello del giudice implacabile, quanto piuttosto quello del compagno di strada che si affianca al credente nel cammino e lo fa avanzare verso vie di libertà e coerenza. Un salmo che mette a nudo la nostra superficialità e la mancanza di analisi autentica del proprio percorso spirituale ed esistenziale, ma apre a una relazione di verità e bellezza.
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[1] Bovati P., Un cammino di salvezza. I Sal 50 e 51 nella loro significativa giustapposizione, in Nei paesaggi dell’anima. Come i salmi diventano preghiera, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 49.
Giovedì 3 aprile abbiamo avuto l’incontro con Giovanni Brancaccio che ci ha raccontato, con molto pathos, di come l’esperienza della poesia abbia segnato la sua vita. In particolare ci ha condiviso l’iniziativa che, per oltre un trentennio, ha portato avanti a Saronno (VA), città dove ha sempre abitato, chiamata “Parole la mattina”, crocevia di molti grandi poeti italiani di questi ultimi decenni.
Da venerdì 11 a domenica 13 aprile abbiamo organizzato degli esercizi spirituali per i giovani in collaborazione con la Pastorale giovanile della diocesi di Milano. Il tema delle meditazioni è stato “Il mistero della Pasqua secondo Luca”.
Da lunedì 21 a giovedì 24 aprile il priore, fr Andrea, si è recato a Roma, all’Abbazia di sant’Anselmo, per partecipare l’Assemblea dei Superiori dei monasteri benedettini italiani (CIM). La riunione ha affrontato il tema della religiosità giovanile odierna, con un contributo fondamentale da parte della professoressa Paola Bignardi.
Sabato 25 aprile abbiamo avuto la prima delle Giornate di dialogo di quest’anno incentrate sul tema dell’Europa. Ospite dell’incontro è stato Edoardo Zin che ci ha parlato della figura di Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Europa unita. Il titolo dell’intervento era: “L’Europa di oggi è quella di Robert Schuman?”.
Martedì 29 aprile fr Roberto è andato a Vizzola Ticino per offrire una meditazione sulla lettera di Giacomo a un incontro di preghiera organizzato nella chiesetta di San Giulio.
Sabato 3 maggio abbiamo avuto la seconda delle Giornate di dialogo con l’abate di Montecassino, dom Luca Fallica (già nostro fratello e priore qui a Dumenza), il cui intervento ha avuto come titolo: “La croce, il libro, l’aratro. Quale monachesimo oggi e per quale Europa?”. Per l’occasione sono giunte molte persone ad ascoltarlo, soprattutto amici e conoscenti della comunità che hanno avuto modo in questi anni di apprezzarne la sapienza e la ricchezza spirituale.
Lunedì 5 maggio abbiamo celebrato l’eucaristica in memoria del nostro fratello Antonio, morto nel 2009 proprio nella notte di questo giorno. Per ricordarlo, sono venuti, come ogni anno, alcuni suoi compagni di ordinazione presbiterale.
Da lunedì 5 a sabato 10 maggio fr Adalberto e fr Emanuele sono stati a Roma, al monastero di San Paolo Fuori le Mura, per un corso sul tema: “Il combattimento spirituale e la lotta contro i pensieri malvagi secondo la tradizione monastica”. Per un’eccezionale coincidenza hanno avuto modo di assistere in diretta, in piazza san Pietro, al primo saluto del nuovo papa Leone XIV, affacciatosi alla loggia della basilica dopo la sua elezione al soglio pontificio.
Mercoledì 7 maggio dalle 17 alle 19, i nostri fratelli Davide e Alberto Maria hanno partecipato alla prima riunione della nuova Commissione Ecumenica della nostra diocesi tenutasi negli uffici della Curia di Milano, nella quale, dopo il giro di presentazione di tutti i membri della commissione, si è ragionato in particolare sulla presenza islamica nel territorio diocesano.
Giovedì 8 maggio, il nostro priore Andrea si è recato a Milano per partecipare alla riunione dei superiori e delle superiore dei monasteri presenti nella nostra diocesi.
Lunedì 12 maggio facciamo la nostra uscita comunitaria annuale a Milano dalle nostre sorelle benedettine che hanno da poco traslocato da via Bellotti a via Cittadini nel quartiere di Quarto Oggiaro. Nel pomeriggio siamo stati invece dalle monache del T.O.R. a Paderno Dugnano. Il loro recente monastero è stato progettato dalla stessa architetto, Carla Bettinelli, che ha curato il progetto anche per il nostro monastero. Da entrambe le comunità abbiamo ricevuto una calorosa e accogliente ospitalità, segno di un’amicizia e di una fraternità che ci lega nello stesso cammino di sequela del Signore nella via monastica.
Lunedì 26 maggio il nostro priore, fr Andrea, ha tenuto l’ultima riflessione sul libro del Qoelet nell’ambito degli incontri biblici ecumenici organizzati nel nostro decanato di Luino.
Nei giorni di lunedì 26 e martedì 27 maggio abbiamo avuto la gioia di avere ancora tra noi p. Benoit Standaert, il quale ci ha tenuto due meditazioni sul libro della Sapienza e sulla speranza nelle Scritture.
Mercoledì 11 giugno il nostro priore Andrea è andato a Vizzola Ticino per tenere una meditazione sulla lettera di Giacomo, che ha concluso la serie di incontri di preghiera che si sono svolti nella chiesetta di San Giulio.
Da venerdì 13 a domenica 15 giugno abbiamo ospitato un gruppetto di giovani di Varese e dintorni accompagnati da fr. Antonio, Cappuccino di Varese. È stata anche l’occasione per le riprese di un documentario che ha come tema “Le Congregazioni religiose e i giovani” che andrà in onda su Tv2000.
Sempre il nostro priore, da lunedì 16 a giovedì 19 giugno ha partecipato al Capitolo Provinciale della Congregazione Sublacense Cassinese che si è tenuto a Subiaco ed avente come tema “La forza formativa della vita comunitaria, nella fedeltà ai suoi ritmi e servizi”.
Da mercoledì 25 a sabato 28 giugno i nostri fratelli Davide e Alberto Maria si sono recati a Roma, presso il Pontificio Ateneo Sant'Anselmo, per un laboratorio interreligioso monastico sulla meditazione nella prospettiva buddista e cristiana. Il principale promotore dell'evento è stato il DIM·MID (Dialogue Interreligieux Monastique - Monastic Interreligious Dialogue), un'organizzazione internazionale che promuove e sostiene il dialogo interreligioso, soprattutto a livello di esperienza spirituale e pratica religiosa, tra monaci e monache cristiani e seguaci di altre religioni. Il workshop è stato il frutto della recente esperienza spirituale che ha portato dal 30 novembre al 7 dicembre scorsi i nostri confratelli Davide e Alberto Maria, insieme a fr. Matteo del monastero di Bose e ad altri monaci e monache in Thailandia (vedi Cronaca della Newsletter n.39).
Venerdì 27 giugno il nostro fratello Elia ha felicemente sostenuto l’esame finale per il baccalaureato in teologia alla Facoltà Teologica di Sant’Anselmo di Roma.
Sabato 5 luglio, il nostro priore Andrea e fr Lino, insieme al gruppetto di amici della “Piccola Lavra”, si sono recati a Milano per incontrare le monache Benedettine di via Cittadini e soprattutto per un confronto con il gruppo dei loro oblati e oblate.
Domenica 13 luglio i nostri fratelli Adalberto ed Emanuele sono partiti alla volta del Santuario della Verna (AR) per partecipare al corso per giovani in formazione delle varie Congregazioni Benedettine maschili e femminili. Quest’anno il tema su cui si sono confrontati è stata la preghiera: “Signore, insegnaci a pregare. La preghiera personale nei ritmi della vita cenobitica”. Fr Adalberto ha tenuto una relazione dal titolo: “Articolazione tra preghiera liturgica e preghiera personale. Esempi della tradizione monastica”.
Sabato 19 luglio abbiamo avuto la visita di mons. Walter Magni, Vicario per la Vita consacrata della diocesi di Milano. Dopo il pranzo, abbiamo avuto un breve scambio di notizie e di opinioni con lui.
Da sabato 26 luglio a sabato 2 agosto abbiamo ospitato il corso di iconografia guidato, ancora una volta, dal maestro Giovanni Mezzalira. La partecipazione è stata come sempre qualificata e molto motivata.
In questo mese sono iniziati i lavori per la riqualificazione energetica della casa che prevede la sostituzione delle due vecchie caldaie (una a legna e una a gasolio) con una caldaia a legno cippato, integrata con delle pompe di calore. Inoltre si provvederà all’installazione di pannelli fotovoltaici. Con questo intervento, l’energia prodotta e consumata dal monastero sarà quasi interamente derivante da fonti rinnovabili.