C’è qualcuno sulla faccia della Terra che non desidera vivere in pace? C’è qualcuno che desidera fare la guerra, veder morire i propri figli e le proprie figlie? C’è qualcuno che spera di veder distrutta ogni forma di civiltà, di rispetto?
Ovviamente, nessuno! Tutti lo pensano, tutti lo dicono: la pace è il bene sommo a cui tutti noi tendiamo, anche inconsciamente. Biblicamente, lo shalom è la somma di ogni forma di pienezza di vita. Non a caso Gesù risorto comunica la pace quale bene primo e assoluto (cfr. Gv 20,19.26).
Eppure sembra che il mondo sia in preda a una follia generale secondo la quale la pace può realizzarsi soltanto attraverso la guerra, attraverso l’annientamento fisico dell’altro, di colui che viene identificato come nemico. La possibilità di un confronto di opinioni, di un dialogo, di mettere in atto quella che è ufficialmente chiamata diplomazia e di cui la politica dovrebbe essere la prima responsabile, non appare come una via percorribile e proficua. Meglio umiliare e colpire talmente l’altro da impedirgli di potersi rialzare. Si ripresenta minacciosamente all’orizzonte la teoria che homo homini lupus e che la clava è migliore della parola e del rispetto comunque dovuto a ogni altra persona.
Appare evidente, come ha scritto su Avvenire del 30 marzo 2025 Stefano Zamagni, come sia necessario “disarmare le menti”. Mentre siamo comodamente sul divano, ci propinano scene di distruzione come se fossimo in un videogame: e tutto questo alimenta dentro di noi la cultura della guerra, della violenza, della forza bruta. Ci fa credere che questi strumenti siano gli unici per affrontare la vita, la realtà.
Sono ottant’anni che qui in Europa non conosciamo una guerra esplicita e diffusa. E se questa è certamente una benedizione, dall’altra parte sembra che non riusciamo a convincerci di cosa sia effettivamente un conflitto bellico. Sembra che i racconti, le testimonianze, i documenti, le immagini che ci fanno almeno intuire quale orrore infinito sia la guerra non riescano più a motivarci. La memoria di quanto accaduto non riesce più a tenere desta la nostra umanità e dignità, facendoci precipitare a livello istintivo e – appunto – animalesco, proprio come si comporterebbe un lupo.
Prosegue ancora Zamagni: “La pace non è un obbiettivo irraggiungibile, dato che la guerra non è un dato di natura. […] Piuttosto, la guerra è un frutto marcio di persone che la vogliono. Lungi dall’essere il proseguimento della politica con altri mezzi, la guerra è il fallimento della politica. E allora si sviluppano ideologie che insegnano a odiare: il vicino, il diverso, il povero, dei cui effetti devastanti sono piene le cronache. Occorre dunque resistere, con saggezza e tenacia, perché tali persone non abbiano l’ultima parola nella formazione dell’opinione pubblica e soprattutto non arrivino a occupare posizioni di potere politico”.
Ma su cosa contano soprattutto questi personaggi che hanno interesse a far spendere miliardi per la produzione e l’impiego delle armi, che non perseguono la via della deterrenza e preferiscono soffiare sulle braci dello scontro di civiltà, dell’incompatibilità di prospettive? Anche qui la risposta è purtroppo univoca: sulla nostra indifferenza, sulla nostra insensibilità, sulla sfiducia di cui noi stessi siamo portatori, e cioè che “non ci possiamo far niente”, che tali giganti dell’economia e dell’opinione pubblica non ascolteranno mai la nostra voce.
E invece no! In un mondo ormai tutto connesso e collegato, chi ha in mano le vie dell’informazione ha una paura folle di far conoscere certe vicende, certi fatti e certe metodologie. Perché non si può accedere a certe carte, perché non si possono ottenere certi documenti? Ovvio, perché i diritti fondamentali vengono negati o stravolti. E di questo dobbiamo invece chiedere ragione e batterci affinché ad ogni persona sia riconosciuto il diritto di vivere in pace. Dobbiamo recuperare il valore del gesto di gratuità, dell’opinione sostenuta con fermezza, capace di contrastare l’indolenza. Solo se nella quotidianità riusciamo a inserire tali atteggiamenti di solidarietà e rispetto ci potrà essere un atteggiamento che cresce dal basso e che può diventare opinione comune condivisa. Come diceva don Lorenzo Milani: “Ognuno deve sentirsi responsabile di tutto”. E il professor Rocco D’ambrosio, che lo cita in settimananews.it del 5 marzo 2025, aggiunge: “La vigilanza sul potere nasce dalla coscienza di sentirsi responsabile di tutto e di volere che il tutto cresca e si sviluppi nella libertà e nella giustizia. La vigilanza è propria di persone mature, che, oltre che con la partecipazione attiva, portano il loro contributo aiutando, con diversi mezzi, chi detiene un potere a svolgere correttamente il servizio affidatogli”.
Papa Francesco non smetteva di richiamare questi temi. Mi ha colpito quello che ha scritto al direttore del Corriere della Sera del 18 marzo 2025 sul ruolo delle parole e la loro importanza nell’aiutare a costruire degli scenari reali e affidabili. “Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità”.
La semplificazione delle questioni affascina perché riporta tutto a un livello banale ma non è realistica. La guerra non ha mai risolto nessun problema ma fa illudere del contrario attraverso lo sfiancamento dell’avversario. Ma se le ragioni si devono imporre con la forza è perché non hanno gambe sufficientemente forti e convincenti. E immetteranno nei vinti soltanto il desiderio di rivincita, di vendetta. Lasciando inalterate le mentalità e le divisioni.
La democrazia, che non è mai acquisita per sempre ma va riscelta ad ogni generazione e anche più spesso, chiede la fatica e la pazienza di tempi di dialogo, di confronto, di ascolto attento e profondo di tutte le forze che sono in campo. Ma offre possibilità di stabilità e crescita per tutti.
Gesù ha pronunciato una parola molto suggestiva al riguardo. “Beati i miti, perché erediteranno la Terra” (Mt 5,5). La forza della nonviolenza, della mitezza, della gentilezza è infinita e anche se può apparire debolezza e chiede tempi lunghi, porta a situazioni di stabilità e concordanza molto più efficaci. E non è un atteggiamento riservato a chi fosse direttamente coinvolto in situazioni sociali o politiche di una certa entità; è qualcosa alla portata di tutti e implica fortezza e coraggio non banali. “In una temperie politica carica di tensioni e polarizzazioni estreme, la gentilezza può ridurre la tossicità del dibattito pubblico e favorire la cooperazione bipartisan perché parte dal riconoscimento dell’umanità e della dignità dell’interlocutore. Non solo potrebbe dar forza alla coesione sociale e al dibattito democratico, può anche contribuire a costruire una società più equa e solidale. […] Nello spazio polarizzato e aggressivo della comunicazione social dove, protetti dalla distanza dello schermo, ci si sente autorizzati a esprimersi con offese e assestare ogni sorta di artigliate, la gentilezza diventa un atto rivoluzionario, fatto di parole rispettose, di ascolto senza pregiudizi, di spazi di empatia che si aprono anche nelle discussioni più accese. Atteggiamento ingenuo o addirittura inutile? Essere gentili richiede forza, perché significa scegliere consapevolmente di rispettare l’altro, anche quando non è facile, anche quando si potrebbe rispondere reattivamente, con durezza. […] Essere gentili in un contesto ostile comporta un enorme controllo di sé e una grande sicurezza interiore. Chi è gentile non si lascia calpestare, ma va a scalare la montagna del coraggio, dalla cui vetta potrà rispondere con calma e rispetto piuttosto che con rabbia e aggressività. Chi è gentile nel conflitto è resiliente, sa affrontare le difficoltà senza lasciarsi sopraffare, e ha sviluppato una solida autoregolazione emotiva” (Rosella De Leonibus, Elogio della gentilezza, in Rocca n. 7/2025, pp. 38-40).
“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).
La sera del Giovedì Santo, nella nostra comunità, davanti all'esposizione del Santissimo ascoltiamo la lettura dei discorsi di addio di Gesù ai suoi discepoli, che il Vangelo di Giovanni ci narra nei capitoli 13-17. Sono testi splendidi, lunghi, ma di grande maturità spirituale, che danno quasi una sintesi di tutta la riflessione che il quarto evangelista conduce nel suo scritto. Essi ci fanno entrare in una dimensione intima, di consolazione, cercando di interpretare gli eventi della Passione in chiave escatologica: "Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via” (Gv 14,2-4). Ma questi testi cercano anche di caratterizzare la vita nuova che deve distinguere i discepoli di Gesù: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34).
Ed è proprio nell'intensità di questi discorsi che Ferdinand Gehr (1896-1996) cerca di farci entrare attraverso la sua tela del 1988. Lo stile è quello di un'astrazione abbastanza radicale, che concentra tutta la sua potenza poetica solo sulle forme e sui colori.
Una croce bianca, di luce, si staglia nel cielo azzurro di primavera, e Gesù, vestito nel colore rosa dei fiori di ciliegio, indica un grande sole giallo, che è anche allusione alla sua presenza nel mistero del pane. Il suo corpo, il suo abito, è ugualmente spezzato, tagliato, in un’altra allusione alla presenza eucaristica, ma anche richiamo a quella profezia che dice: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca” (Gv 19,24). Attorno a lui i dodici tutti vestiti con i colori tenui del verde, richiamano i prati su cui le greggi affidate al Buon Pastore troveranno pascolo: "se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo" (Gv 10,9). Abbigliati nel colore dell’erba essi divengono così adempimento di quella parola che dice: “Date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16). Seguendo il Signore i discepoli hanno assunto - e questo è un tratto tipico della poetica di Gehr - la vitalità delle foglie e dei tralci della vite (Gv 15,5).
Forse però quel che mi colpisce maggiormente nel riflettere su quest'opera alla luce della Sacra Scrittura è la posizione del discepolo che, presumo, appoggia la testa sul petto del Signore (Gv 13,23). Esso sembra quasi sgorgare dal costato di Cristo, come Eva che venne tratta dalla costola (Gn 2, 21-22), come l'acqua che sgorga dal suo fianco trafitto (Gv 19,34). I discepoli sono diventati come acqua che irriga la Chiesa, sangue versato per la salvezza del mondo. L’addio di Gesù nella tela di Gehr si colora dei tratti dolci della primavera, esso è ritorno alla vita, momento che sempre, nella sapienza liturgica e cristiana, è prima di tutto annuncio della Passione del Signore, attualizzazione della sua Resurrezione.
Interrogandoci sul tema del rapporto con l’ambiente nella nostra comunità, abbiamo fatto girare tra i fratelli un ampio questionario. Così la scrittura di quest'articolo è il frutto di una riflessione semi-comunitaria in cui ciascuno ha prima di tutto interrogato il proprio rapporto tra lo stile di vita che conduciamo a Dumenza e la natura che ci circonda.
Un’analisi giusta e puntuale è certamente quella fatta dal nostro fratello Emanuele: "Il monastero si trova in un luogo ad alta naturalità, ma la sua architettura è introflessa e rivolta al chiostro. Nella vita quotidiana gli spostamenti avvengono per la gran parte nel corpo scale interno della clausura, molti ambienti di lavoro (cucina, restauro, biblioteca) e comuni (sala caffè, sala studio, sala riviste interna, aula noviziato) si affacciano sul chiostro interno. La stessa cappella è costruita in trincea rispetto al piano di campagna ed offre una visione limitata del paesaggio. La forma a feritoia delle finestre che danno verso l’esterno non favorisce l’apprezzamento dell’ambiente circostante, ma piuttosto ne inquadra punti precisi". Questa lettura centra perfettamente il punto di quello che è il tema del rapporto tra vita monastica benedettina e ambiente, tema che sta tornando di grande attualità in particolare da quando l'UNESCO ha accettato la candidatura a Patrimonio dell'Umanità otto insediamenti benedettini altomedievali, non tanto per il loro valore artistico o storico, ma per il loro modo di realizzare attorno a sé un paesaggio culturale.
La cultura dei giardini nelle ville rinascimentali, il modo di pensare il proprio rapporto al cosmo nella spiritualità francescana, non corrispondono al modo con cui la storia e le vicissitudini della vita benedettina hanno interpretato il suo rapporto all'ambiente: esso è infatti un unicum, che ha delle caratteristiche peculiari in accordo con la spiritualità vissuta.
Questo rapporto è infatti qualcosa di sostanziale e non una generica contemplazione della poesia del Creato. Come sottolineano diversi fratelli: “viviamo questo ambiente come un dono, esso ci è stato dato, lo riceviamo". Un altro fratello fa notare con chiarezza: "esempi banali come ascoltare il verso degli animali o contemplare le stelle in cielo, mi hanno sempre aiutato, ma il punto non è lì". Fr Alberto ad esempio scrive con giustezza: "ciò che mi ha sempre colpito non è tanto l’essere immerso nell’ambiente naturale, quanto il fatto che il bosco che ci circonda, l’assenza quasi totale di abitazioni nel raggio di molti chilometri e l’impervia strada di montagna che è necessario percorrere per raggiungerlo ne facciano un luogo isolato, e caratterizzato perfino da una certa inaccessibilità. Chi giunge al monastero non vi giunge quasi mai per caso: non siamo un luogo di passaggio. Chi ci raggiunge sceglie di incontrare la comunità, di inserirsi per un tempo più o meno prolungato (almeno una giornata) nella sua preghiera liturgica e nei suoi ritmi, è animato in qualche misura da un desiderio di vita spirituale". È il primato della liturgia quello che forma infatti la nostra vita.
Quando saliamo verso uno degli antichi insediamenti benedettini ci chiediamo: ma perché tutta quest’arte sulla cima di un monte? Perché tutti questi libri? La scelta di Benedetto di proporre ai suoi monasteri la liturgia basilicale romana - così come ci suggerisce la Regola - che ha bisogno per esprimersi di libri, incensieri, paramenti, vede in qualche modo collocare nel cuore di quella periferia geografica, rappresentata dal monte, una gemma dell'Urbe. Ma la natura allora? La sua presenza è spiegata con avvedutezza da fr Adalberto: "essa insegna la pazienza del contadino, ci abitua ad accettare anche i periodi "morti" o inattivi per far crescere il desiderio e l'attesa. Purtroppo sono aspetti che oggi la cultura del “tutto e subito” ha dimenticato. La vita monastica con i suoi ritmi lenti e precisi custodisce questo insegnamento che è quello dei lunghi periodi di latenza della natura".
Solo questa consapevolezza dell'alterità della natura nutre allora la contemplazione del monaco, come sottolinea anche fr Pierantonio: "La collocazione del monastero a 1000 metri di altitudine e l’immersione piena nella natura boschiva circostante fanno sì che la nostra casa sia incomprensibile senza la natura. Nella mia preghiera personale non mancano parole di gratitudine a Dio per la natura sia a causa delle letture che svolgiamo a tavola, sia a causa degli stimoli che giungono dai fratelli della Comunità".
La natura diviene infatti prima di tutto scuola di silenzio con tutte le implicazioni spirituali che questo comporta, come sottolinea fr Andrea: "Il clima di silenzio che la natura circostante contribuisce a mantenere permette un ambiente di raccoglimento, profondità, attenzione".
In questo contesto la natura non è poetica voce del divino, ma essa permette quell'agire dell'uomo che è prima di tutto lavoro su di sé, come sottolinea fr Lino: "è un luogo per scoprire e sperimentare l'opera di salvezza che Dio sta compiendo in me, anche ma non solo grazie all'osservanza della Regola. Questo luogo ha dei vantaggi e degli svantaggi, ma quale luogo non li ha? Quello che all'inizio mi pareva un luogo limitante con poco valore con il tempo si è rivelato strumento di approfondimento e crescita umana e spirituale".
Certo la natura interviene talvolta in modo inatteso, rivelando il suo lato selvaggio come sottolinea fr Roberto: "Questi monti sono abitati da animali selvatici, è anche casa loro, impariamo a convivere con loro nello stupore della loro presenza. È sempre bello vedere dalla finestra cerbiatti, cervi e cinghiali che pascolano".
Questo abitare lo spazio ci invita alla responsabilità, come richiama fr Giovanni: "credo che lo spazio del monastero debba essere vissuto come un grande dono, ma anche come una responsabilità altrettanto grande: più si riceve e più si è chiamati a condividere il dono ricevuto. E questo ci impegna maggiormente a crescere nel rispetto e nella custodia di quel creato che ci è stato affidato dal Creatore…". Un cammino di consapevolezza che la comunità ha certamente intrapreso come riporta fr Davide: "Credo che la nostra comunità abbia preso a cuore le istanze della Laudato sii, tanto più ora che ha avviato il progetto di riqualifica energetica che prevede un consumo di fonti rinnovabili, il che ci rende un unicum tra le strutture monastiche italiane. È un investimento per i prossimi 15/20 anni, che indica un orientamento di senso ed un impegno verso noi stessi e i nostri ospiti e verso il creato".
Come dice dom Biagio di Praglia che, sapendo del nostro questionario, ha voluto farci giungere la sua riflessione: "un luogo monastico è come una pianta, le radici sono sottoterra, dentro, solo una parte è visibile. La vitalità esteriore è possibile solo se si vive l'interiorità".
La vita benedettina sembra quindi al riparo da un troppo facile "poema della natura". Secondo la tradizione monastica infatti la natura disvela al monaco la sua presenza solo nel momento dell'uscita dal monastero, nel suo tornare verso il mondo, come leggiamo anche nel carme 23 che il poeta e teologo medievale Alcuino di York dedica al suo monastero nel momento di doverlo lasciare per l’ultima volta. Questo testo, che è una delle fonti principali per interpretare e comprendere il paesaggio culturale benedettino, descrive allora quell'ambiente che con la preghiera, il lavoro e la lettura è andato colorandosi di storie e di Storia nel tempo di una lunga e paziente vita.
O mio monastero, mia dolce dimora, amata,
sempre in eterno, o mio monastero, addio.
Da ogni parte ti circondano alberi dai rami fruscianti,
la selva sempre carica di chiome fiorite.
I prati tutti stanno fiorendo di erbe salutari,
che la mano del medico cerca per l’umano benessere.
I fiumi da ogni parte ti circondano con le loro floride rive,
dove il pescatore tende le sue reti, gridando gioiosamente.
Di rami pomiferi odorano i tuoi cortili attraverso i giardini,
e i gigli candidi mescolati alle rosse rose.
Ogni specie d’uccelli fa risuonare le odi del mattino
ed il Dio creatore sulla bocca loda.
In te risuonò un tempo la voce benigna del maestro,
che con la sua santa bocca trasmise i libri della sapienza.
In te ad orari stabiliti la lode santa del Rettor del cielo
si levò da voci ed anime pacifiche.
Te, mio monastero, ora piango con muse lacrimose
e gemendo nel petto piango le sventure tue.
Giacché tu repentinamente hai fuggito i carmi dei poeti
e una mano ignota ora tutta ti tiene.
Te ora né Flacco né il vate Omero più avranno,
né i fanciulli per le tue stanze le muse canteranno.
Ché così si trasforma ogni beltà del mondo all’improvviso:
tutto muta secondo ordini diversi.
Nulla rimane in eterno, nulla è immutabile davvero,
oscura il sacro giorno la notte tenebrosa.
E recide subitamente i bei fiori il freddo inverno,
e agita il vento, più minaccioso, il tranquillo mare.
Dove nei campi inseguiva i cervi la sacra gioventù,
ora sfinito si appoggia al suo bastone un vecchio.
Noi sventurati, perché t’amiamo, o fuggevol mondo?
Tu fuggi da noi sempre, a rovina correndo da ogni parte.
Tu fuggendo, fuggi pure; Cristo noi sempre amiamo!
Sempre l’amore di Dio domini i nostri cuori.
Egli, pio, dal crudele nemico difenda i servi suoi,
al cielo trascinando i nostri cuori;
giacché con tutto il cuore lo lodiamo, parimenti amiamolo:
Egli, pio, è la nostra gloria, la nostra vita, la nostra salvezza.
Alcuino di York, Carme 23
Chi ha una qualche dimestichezza con il linguaggio dell’arte sacra, non si stupisce nel vedere l’abbondanza di elementi tratti dalla natura nelle rappresentazioni dei santi. Piante ed animali, presenti nella vita o nelle tradizioni leggendarie legate ad un santo e riletti in un orizzonte simbolico, ne diventano segni distintivi che rivelano non solo il legame profondo del santo con la natura, ma diventano un tutt’uno con la sua identità, un messaggio per comprenderne la santità. Per questo le immagini di molti santi hanno profondi legami con il mondo della natura. Fiori e piante, animali domestici e selvatici, accompagnano spesso i loro ritratti in dipinti e statue, mosaici e affreschi. E insieme alla biografia di ciascuno, si trova sempre un episodio, una storia, un rimando a fatti realmente avvenuti, a sogni, visioni, interpretazioni, credenze, leggende che, in modo semplice o colto, mostrano come la grazia di Dio nei confronti delle donne e degli uomini sia indissolubilmente legata alle altre molteplici forme di vita sulla terra.
In molte vite di santi, soprattutto nell’antichità e nel medioevo, il paesaggio naturale, con la ricchezza delle sue espressioni, diventa lo spazio vitale in cui si forma un tipo di santità. I deserti inospitali dell’Egitto, le fitte foreste e i laghi del nord della Russia, le cavità delle rocce e degli alberi, le isole e i fiumi sono l’orizzonte naturale, soprattutto dell’antichità, di tante forme della santità cristiana. Ma è specialmente il mondo animale ad essere entrato in dialogo con la vita di molti santi. Nell’immaginario agiografico non c’è una specie animale che non trovi un posto. Usando una immagine biblica, si potrebbe dire che animali domestici e bestie feroci, uccelli e rettili, pesci e insetti entrano nello spazio della santità come in una sorta di arca di Noè per essere salvati e ridonati in modo nuovo alla creazione.
È impossibile qui fare l’elenco degli animali presenti nelle vite dei santi. Accanto agli animali domestici come il cane (cfr. san Domenico di Guzman, san Rocco, santa Margherita da Cortona), il cavallo (sant’ Eligio di Noyon), la mucca (santa Brigida d’Irlanda) l’oca e l’anatra (santa Verburga di Chester e santa Hilda di Withby, nelle cui vite sono presenti miracoli di oche e anatre che rovinavano raccolti), nelle Vite ritroviamo episodi con animali meno pacifici, animali selvaggi che a contatto con la santità dell’uomo di Dio subiscono una profonda trasformazione e vengono salvati. Pensiamo al leone legato alla figura di san Gerolamo o presente in un episodio della vita di san Gerasimo, anacoreta presso il Giordano; oppure alla iena curata da san Macario di Alessandria, al cinghiale che si accovaccia ai piedi dell’eremita san Basolo (vissuto presso Reims nel sec. VII), alle lontre che si avvicinano a san Cutberto di Lindisfarne (+ 687) quando si ritira sulla riva del mare per pregare.
Anche gli uccelli hanno un ruolo significativo nella vite dei santi. Riportiamo solo un simpatico e tenero episodio legato alla vita di san Carileffo (o Calais, eremita vissuto nel VI sec. al Nord della Francia). A questo santo monaco accadde di dare alloggio a dei cardellini nel suo stesso cappuccio. Stava infatti lavorando e aveva appeso il suo cappuccio ad un ramo, quando si accorse che intorno a lui si erano radunati cardellini, cinciallegre, fringuelli, lucherini, merli… che cantavano e volavano festosi qua e là. Contento di quella allegra compagnia mandata dalla Provvidenza, Carileffo lavorò fino a sera. Quando fu ora di tornare a casa si accorse che nel cappuccio c'era un piccolo uovo bianco. Anziché buttarlo, lo lasciò nel cappuccio riappeso al ramo. Quando tornò il giorno dopo vide che le uova erano quattro. Decise allora di lasciare che la natura facesse il suo corso e fu premiato quando, dopo un po' di giorni, vide involarsi quattro bei cardellini dal suo stesso cappello.
Infine, anche rettili, pesci (santa Amalberga di Tamsee, VIII sec., attraversò il fiume a cavallo di un pesce) e insetti (pensiamo alle api che si posano sulla bocca di sant’Ambrogio, ancora neonato nella culla) entrano a far parte di questa sorta di paradiso terrestre che è la santità cristiana.
Questo legame del santo con la natura, così come appare negli scritti agiografici o nelle tradizioni leggendarie, non ha nulla di idilliaco. La natura presente nella vita del santo è una natura ferita dal peccato e quindi una natura che conserva una forte ambivalenza: essa può essere luogo di rivelazione del disegno di Dio, segno della sua presenza, oppure strumento e manifestazione del male. Spesso, in molti racconti agiografici, la natura con le manifestazioni ad essa legate si rivela ostile e ribelle e sembra ostacolare il cammino di santità. Addirittura può diventare espressione simbolica del male. Pensiamo alla forma mostruosa del drago (cfr. san Giorgio, santa Marta, santa Margherita di Antiochia) o alla pericolosità subdola del serpente (san Patrizio d’Irlanda, san Giulio d’Orta). È evidente che qui gli animali sono sé stessi e più che se stessi: simboli del male mascherato dalla parvenza del bene, del tradimento, dell’eresia. Il santo è chiamato ad affrontare, nel segno della vittoria di Cristo sulla morte e sul peccato, questa dimensione inquietante della natura. Soprattutto il santo, attraverso questa lotta, che è simbolo della lotta interiore contro il peccato, è chiamato a riportare la natura al suo progetto inziale, a quella bontà impressa in essa da Dio stesso. Allora la natura (ed in particolare gli animali) entra in un processo di trasformazione, di conversione, di trasfigurazione proprio a contatto con la santità.
Si rivela così la seconda angolatura che segna il legame tra il santo e la natura. La natura entra in armonia con il santo e diventa l’espressione di un raggiunto stato paradisiaco. Essa serve il santo, diventa lo spazio della santità. Non stupisce allora di scoprire, in molti episodi agiografici, un profondo legame di amicizia che si crea tra il santo e gli animali. Essi addirittura diventano fedeli compagni nel cammino della vita, perché si sentono accolti e amati. Di qui deriva la cura per gli animali che è cura della natura ferita e violentata dall’uomo (cfr. alcuni episodi della vita di santa Brigida d’Irlanda) ed è segno della misericordia di Dio per ogni creatura. San Martino de Porres, domenicano vissuto a Lima e uno dei primi santi del Nuovo Mondo (1579-1639), tra le tante sue cure ebbe quella per gli animali: non sopportava che si maltrattassero e si rivolgeva a quelli più umili del cortile, anche ai topi, perché anche in loro vedeva l’orma del Creatore. Parlava con essi e ne era obbedito: cani, gatti, buoi andavano da lui a farsi nutrire, curare e medicare e i topi si radunavano in fondo al cortile per essere nutriti senza far danno ad altri.
A questo riguardo è interessante la figura simbolica del cervo o della cerva nella vita di alcuni santi. Tra gli altri, l'animale è associato ad Egidio, il santo eremita nato ad Atene e trasferitosi in Provenza (+ 720), dove diede rifugio ad una cerva inseguita durante una battuta di caccia. Egidio abitava in una grotta, usava il legname e le frasche per ripararsi e mangiava i frutti del bosco. Per consolarlo nella sua solitudine e per nutrirlo meglio, la Provvidenza gli mandò una cerva. Questo splendido e grande animale passava ogni mattina vicino alla sua grotta. Egidio con calma se la fece amica e riuscì ad addomesticarla, così che poteva mungerla senza spaventarla. La stessa cerva, durante una battuta di caccia, venne inseguita per essere uccisa: si rifugiò tra le braccia del santo, che non esitò a ripararla con la sua mano e a rimanere lui stesso ferito dalla freccia lanciata per uccidere l’animale.
Il cervo è legato anche ad altri due santi. La conversione di sant'Uberto vescovo di Liegi (+ 720) avvenne durante una battuta di caccia, quando nel fitto del bosco gli apparve un cervo con un crocifisso tra i maestosi palchi che indusse il protettore delle guardie forestali a dedicarsi per il resto della vita all'evangelizzazione delle Ardenne. Un episodio simile, narrato nella Legenda Aurea, accadde a sant'Eustachio, soldato romano martirizzato nel II secolo. Seguiva un cervo nella foresta, quando tra i palchi dell'animale vide un crocifisso luminoso e udì le parole: "Perché mi perseguiti? Io sono quel Cristo che non conosci, ma onori senza saperlo". In questi due ultimi episodi si rivela una funzione importante della presenza della natura nelle vite dei santi: essa si trasforma in simbolo di una realtà che va al di là dello sguardo dell’uomo, simbolo del mondo di Dio.
La natura educa ad uno sguardo contemplativo. Questo sguardo posato sul creato suscita nell’uomo di Dio quel senso di stupore davanti alla presenza del divino nascosto nel quotidiano. Per chi sa leggere il muto linguaggio della natura, ogni creatura rivela qualcosa del mistero di Dio, della sua bontà, della sua provvidenza. Anche un cervo può nascondere il volto di Colui che chiama l’uomo violento alla conversione, che ridona ad ogni creatura quella luminosità voluta da Dio e che fa scegliere la via della vita e non quella della morte.
Poco prima di morire, san Benedetto ebbe una visione: come narra san Gregorio Magno, «il mondo intero come raccolto in un unico raggio di sole fu posto davanti ai suoi occhi». E commentando tale visione, Gregorio aggiunge: «per l’anima che vede il Creatore […] l’intero creato le appare ridotto ad una misura assai piccola; è infatti la stessa luce della contemplazione a dilatare la sua interiore capacità di penetrazione […]. Dire che il mondo era come interamente raccolto davanti ai suoi occhi, non significa affermare che il cielo e la terra si erano rimpiccioliti, ma piuttosto si era dilatata l’anima di colui che contemplava. Egli, infatti, sollevato in Dio, poté facilmente vedere tutto ciò che si trova al di sotto di Dio».
Così, con questo sguardo di comunione e di compassione, con questa luce che trasfigura, ogni creatura acquista il suo senso e il suo posto nel disegno di Dio. È questo lo sguardo della santità che Dio dona all’uomo e con cui si è chiamati a contemplare la creazione.
"C'è bisogno di vita nascosta, nel silenzio, nella preghiera, alla ricerca dell'ultimo posto.
Se si lavora per se stessi, per la propria fama o fame di visibilità, rischiamo di perdere tutto, se si lavora per il Signore, abbandonandoci con fiducia nelle sue braccia, confidando nella sua premurosa presenza, si guadagna veramente tutto... e anche di più…".
Da questo piccolo scritto che ho ripreso da alcuni pensieri di quello che è stato il mio padre spirituale, morto qualche anno fa, nasce e si sviluppa nel tempo la mia personale ed attuale vocazione alla vita contemplativa.
Mi presento: mi chiamo don Giorgio, sono sacerdote da circa 15 anni (la mia è una vocazione adulta, nata in ambiente monastico), da circa 5 anni ho intrapreso una esperienza di vita eremitica, culminata nella mia consacrazione nelle mani del Vescovo di Biella, mons. Roberto Farinella, lo scorso dicembre.
A seguito di un lungo periodo di lontananza dalla chiesa e dopo una lunga esperienza (circa 20 anni) in una comunità monastica, dove ho avuto modo di riappropriarmi della vita sacramentale e di preghiera, ho sentito l'esigenza di intraprendere questa nuova strada, sentendo sempre di più il bisogno di una vita ritirata e di preghiera alla luce di una maggior disponibilità all'ascolto della Sua Presenza.
Grazie all'accompagnamento materno del mio padre spirituale, via via la strada si è sempre più delineata, fino alla decisione di provare a sperimentare questa nuova via, nella continua ricerca di una relazione sempre più profonda con l'Infinito.
Fin da bambino, vivendo in campagna, ho avuto una particolare predisposizione per la solitudine e sono stato attratto dal silenzio e dalle manifestazioni della natura; ero spesso rapito nel guardare gli animali o le piante, tant'è che i miei genitori, quando non sapevano dove cercarmi, andavano a colpo sicuro, trovandomi seduto in mezzo alle galline nel pollaio di casa... e potete solo immaginare in che condizioni!
In seguito ho iniziato una vera e propria coltivazione di piante in vaso, andando a cercare semi e piantine da rinvasare, che curavo personalmente e osservavo nella loro crescita, fino al punto di intraprendere una volta adulto un'attività di giardinaggio.
Negli anni a seguire la mia passione per la montagna e la natura si è ulteriormente sviluppata, portandomi sempre di più ad apprezzare i momenti di solitudine e silenzio.
Detto ciò, mi è sembrato naturale qualche anno fa, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, di provare a rivolgermi al Vescovo di Biella (che conoscevo personalmente), per chiedere se era disponibile ad accogliermi in Diocesi, con un progetto di vita eremitica, nel rispetto e nella tutela della mia nuova condizione vocazionale.
In accordo con il Vescovo, abbiamo stabilito una parziale collaborazione con alcuni confratelli sacerdoti nel luogo in cui risiedo, in spirito di fraternità; l'esercizio pastorale del mio ministero sacerdotale è occasionale e non prevalente.
Attualmente vivo in una canonica, con chiesa annessa dedicata a Sant’Antonio Abate, in prossimità del cimitero, in un piccolo paese di montagna, in una zona abbastanza tranquilla e circondata da un bel bosco di latifoglie.
All'interno del giardino della proprietà sono riuscito ad organizzare una piccola area adibita ad orto, che ho dovuto recintare per evitare che i caprioli, che spesso mi fanno compagnia, mi mangiassero tutto quanto.
Una delle attività che svolgo soprattutto nel periodo primavera/estate è appunto quella dell'orto, con l'idea, in spirito di povertà e nell'ottica dell'ora et labora monastico, di essere autosufficiente a livello alimentare. Non mangiando carne questo non mi è particolarmente difficile.
Sempre nella proprietà ci sono alcune piante da frutto, che mi garantiscono una discreta produzione di frutta di stagione, che curo personalmente per quel che concerne la potatura ed altre pratiche da giardiniere (uno dei lavori esercitati e una delle passioni della mia vita).
Altra attività importante e indispensabile è la raccolta della legna per il riscaldamento, dato che mi riscaldo prevalentemente con due stufe a legna. Mi piace inoltre svolgere alcuni lavori di falegnameria e di scultura del legno, nel piccolo laboratorio che ho attrezzato a tale scopo.
Ovviamente tra i lavori bisogna considerare la cura del luogo in cui abito, la cura del verde, le pulizie di casa, la preparazione dei pasti, ecc...
La pratica della presenza di Dio attraverso la preghiera. Continuando a pregare, gradualmente si impara a pregare.
La mia giornata è cadenzata da momenti dedicati alla preghiera e alla celebrazione quotidiana dell'Eucarestia, con l'idea che Quello che di grande e assoluto c'è nella preghiera viene realizzato e portato a compimento in quest'intimità che è l'Eucarestia.
Oltre alla recita del breviario, durante le ore canoniche, pratico la preghiera del cuore, in quattro momenti (di mezz'ora ciascuno) durante la giornata. Inoltre, celebro la Messa nella cappella di casa, tutti i giorni a parte il fine settimana, quando svolgo servizio pastorale nella parrocchia di residenza.
Durante la giornata, ci sono momenti dedicati alla lettura e allo studio della Sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa e del Monachesimo.
La pratica della preghiera continua a cui tendo mi pare un aspetto essenziale della mia particolare consacrazione, anche se mi rendo conto che la gente ha difficoltà a comprendere la mia modalità di vita e d'altronde, per paradosso, ci sono persone che si chiedono: "un prete che prega che utilità ha?". Spesso questa è l'osservazione che mi è stata fatta, in maniera più o meno esplicita.
Per quel che riguarda il contatto e le relazioni con il mondo esterno, se è vero che l'eremo deve rispondere alle esigenze della più rigorosa separazione dal mondo e della necessità della solitudine per favorire il silenzio e la preghiera, allo stesso tempo mi sono ritagliato dei momenti (durante la settimana, su appuntamento) in cui personalmente ricevo alcune persone per l'esercizio del sacramento della riconciliazione, dell'accompagnamento spirituale e percorsi d'aiuto per l'elaborazione del lutto per chi si trova a vivere la dolorosa esperienza della perdita di una persona cara.
Inoltre dall'esperienza nata qualche anno fa in contesti di Hospice e Ospedali, dove ho prestato volontariamente servizio, è partita l'idea di fondare con alcuni conoscenti che condividono un percorso spirituale comune - e in particolare la preghiera del cuore - un’associazione (Albero della vita OdV) - di cui sono socio ispiratore, fondatore e assistente spirituale - che si occupa di accompagnamento al morente e di elaborazione del lutto.
Mi torna in mente, a proposito, un episodio in particolare, che vorrei condividere.
Con una cara amica ci rechiamo in visita ad una giovane donna, "Iaia", che si trova in Hospice, per un carcinoma al seno ormai in fase terminale. Ci avviciniamo al letto, la stanza in penombra con le tapparelle abbassate. Non si muove nulla sotto le lenzuola; poi improvvisamente qualche singhiozzo trattenuto a fatica, poi un pianto a dirotto... io e l'altra persona ci guardiamo, quasi spiazzati: che fare? Prendiamo una sedia a testa, ci sediamo ai lati del letto e, senza accordo alcuno, accarezziamo quelle mani tormentate, con dolcezza, pronunciando all'unisono silenziosamente qualche invocazione.
I singhiozzi iniziano a diminuire, "Iaia" chiude gli occhi, il viso leggermente disteso; si è addormentata. Un ultimo bacio sulla fronte, una carezza e ci allontaniamo a fatica con la consapevolezza che "Iaia" non ne avrà ancora per molto.
Da tale esperienza è nata un'importante collaborazione con una psicoterapeuta di Torino che si occupa in particolare di elaborazione del lutto per bambini, collaborazione che ha consentito la pubblicazione di un piccolo libro scritto a due mani: DIRE, FARE, BACIARE, LETTERA, TESTAMENTO - L'Evento morte: come affrontarlo nella relazione Educativa e di Aiuto. (Edito Voglino Editrice - Torino).
Si tratta di un piccolo testo, in cui si racconta con delicatezza e umanità l'esperienza della morte.
A tal proposito, potete immaginare come la preghiera sia fondamentale per accompagnare sia le persone che stanno morendo e che chiedono semplicemente una presenza silenziosa e accogliente, sia le persone che si trovano a dover vivere l'esperienza del lutto e della mancanza della persona cara, con cui hanno condiviso gioie e dolori della vita.
Con la consapevolezza che ogni gesto d'amore, vissuto come dono, per uno scopo puro diventa preghiera, non mi resta che salutarvi lasciandovi con questo piccolo pensiero:
Abituiamoci a conversare spesso con Lui e dimentichiamoci di Lui il meno possibile.
Nel 2023 Perfect Days di Wim Wenders sorprende critica e pubblico per la sua palpabile qualità e la sua capacità di toccare con delicatezza e precisione delle corde profonde della sensibilità contemporanea: parla a ciascuno di noi.
Il film nasce come documentario commissionato a Wim Wenders dal progetto The Tokyo Toilet, con lo scopo di promuovere l’introduzione di 17 bagni pubblici progettati da architetti internazionali nell’iconico quartiere di Shibuya. I bagni sono concepiti come bellissimi padiglioni, luoghi di accoglienza (sacra nel Giappone tradizionale), santuari di pace e dignità. Il regista è colpito da questo modo di intendere un luogo così tecnico e, al posto dei cortometraggi previsti, propone di girare un unico film narrativo. Sono gli anni a cavallo della pandemia e Wenders si stupisce di come il popolo giapponese, anche attraverso questo progetto, si prenda cura della città dopo il lockdown, aprendosi alla dimensione pubblica e condivisa della vita, in modo diametralmente opposto rispetto alla sua Berlino. Così Wenders elabora il personaggio di Hirayama, nel quale condensa con una intelligente utopia le impressioni e le riflessioni di quegli anni.
In una piccola Tokyo appartata
Il film ci accoglie con il vecchio formato 3:4 (quello dei film di Don Camillo, per intenderci) e ci conduce in una Tokyo inedita, appartata rispetto a quella patinatissima, tecnoefficiente e futuristica. Ci avviciniamo in punta di piedi alla vita semplice di Hirayama, uomo di mezza età che conduce una vita estremamente regolare tra Asakusa, il tranquillo quartiere dove abita, e Shibuya, la zona in cui lavora ed epicentro iconico della Tokyo più effervescente.
Viviamo quasi in tempo reale lo svolgersi delle sue giornate in un effetto loop che costringe a uno scarto rispetto all’incalzare narrativo al quale siamo abituati. La lentezza è un atto deliberato e a suo modo ribelle del regista, il quale afferma: “Credo che il linguaggio cinematografico contemporaneo sia diventato per molte persone troppo forte, complesso e veloce. Sento che c'è una certa nostalgia per un linguaggio cinematografico che torni a essere più narrativo, e non così travolgente. C'è una certa violenza in molti film che vediamo oggi. Non parlo di violenza come tema, ma di una violenza nella modalità di presentazione, nella velocità con cui dobbiamo vedere e comprendere, e nel volume con cui vengono presentati.”
La lentezza ci apre al mondo di Hirayama, fatto di attenzione poetica e gratitudine. Lo vediamo lavorare come addetto alle pulizie dei bellissimi bagni di Shibuya, un mestiere umile e ripetitivo che vive con grande umanità e dignità. L’attore Koji Yakusho interpreta da fuoriclasse il protagonista quasi senza bisogno di parole, comunicando l’umanità del personaggio con il suo denso mettersi in scena (Nota: Del resto anche sul set, per ovviare alle barriere linguistiche, Wenders e Yakusho avevano sviluppato un linguaggio silenzioso fatto di cenni e intese). Seguiamo Hirayama mentre gusta la sua semplice routine: sistema il futon, si prepara per uscire, ascolta le canzoni preferite da vecchie cassette mentre guida, pranza all’aperto con un tramezzino nel santuario di Yoyogi Hachimangu, catturando la luce tra gli alberi secolari con una fotocamera analogica; a fine giornata ritorna a casa, legge un buon libro ed infine scivola in delicati sogni in bianco e nero (splendida opera nell’opera, realizzati da Donata Wenders, moglie del regista). Compie azioni qualsiasi, ma lo fa in modo differente, affascinante.
“Tutto sembra quasi sacro”, spiega Wenders, “perché è così che lui guarda tutto”. Questo sguardo rispettoso e riflessivo verso il quotidiano gli permette di non banalizzarlo e di non esserne schiacciato. La sua libertà interroga chiunque e in particolare chi, con lo strumento di una vita regolare, cerca di fare posto all’irrompere del sacro, come accade nella vita monastica. A proposito il regista commenta: “Vive un po' come un monaco, ed essendo giapponese ha una certa affinità con il pensiero zen. La sua filosofia di vivere nel presente ha una lunga tradizione in Giappone.” E altrove: “Riempie ogni giorno di nuovi significati e ha la capacità di vivere nel presente. Quindi, per lui, la routine offre struttura, ma non è un peso; anzi, gli dà una grande libertà […] per vedere molte cose e prestare attenzione alle variazioni. La routine non è necessariamente qualcosa di negativo.”
Elogio della vita semplice 木漏れ日[komorebi] e solitudine esistenziale 蒸発 [johatsu]
Wenders ci invita a interpretare il film evitando i dialoghi verbosi, dandoci qualche indizio. Per iniziare il titolo del film allude ad una ballata di Lou Reed dove si narra di una giornata in dolce compagnia, nel corso della quale fatti anonimi, come una gita allo zoo, un cinema, si trasfigurano in idillio poetico, il Perfect day. In effetti anche Hirayama, con scelte meditate e forse dolorose, ricerca un equilibrio ordinario, laterale rispetto alla frenesia del mondo, per riscoprire che tutti i giorni sono perfetti.
Questa sensibilità si dichiara nel gesto di fotografare i raggi di sole tra le fronde: è il komorebi (木漏れ日), “la parola giapponese per il gioco di luce e ombre creato dalle foglie che ondeggiano nel vento. Esiste solo una volta, in quel preciso momento” (Nota: Questa è la spiegazione del termine riportata dopo i titoli di coda). Non si tratta di un atto meramente estetico, ma una vera meditazione sul presente. Esprime l’atteggiamento del saggio, che sa unire gli opposti ed è educato al mono no aware (物の哀れ), cioè alla partecipazione emotiva verso la natura e la vita umana: egli sa riconoscere e godere della bellezza ed insieme avvertire tristezza per la sua caducità.
La postura serena ma solitaria di Hirayama ci interroga, specie se confrontata con la canzone di Lou Reed, in cui è proprio la presenza di una persona amata a conferire valore ad eventi in sé risibili. La solitudine per Hirayama non è subita, piuttosto è una precisa scelta esistenziale che ci parla del bisogno sempre più diffuso di solitudine e silenzio autentico nel quale mettersi in ascolto profondo (Nota: La vita di Hirayama per certi versi rimanda al noto motto epicureo “vivi nascosto” [Λάθε βιώσας (lathe biosas)] di chi sceglie la solitudine per assaporare la vita. È in diretta opposizione con chi vive nell’attività continua, pratica che toglie energia e creatività e produce ansia. Il motto raccoglie il desiderio del silenzio per accedere alla propria interiorità, dichiara la necessità di momenti di inattività per chiarire la mente. Per l’epicureo anche il lavoro, specie quello manuale e semplice, vissuto in solitudine, diventa pratica meditativa per aprire spazi al pensiero. Lo “stare appartati” epicureo ricostruisce una relazione profonda con la natura, ricerca armonia fisica e mentale. Non è un isolamento egoista, ma un riguadagnare la capacità di attenzione per tornare a guardare l’altro; uno stile di vita ribelle rispetto a quello della vita pubblica, che oscilla tra l’angoscia della solitudine e lo stordimento dell’ipersocialità.).
Il regista, con il suo protagonista, sembra però prendere le distanze da un isolamento individualista, come afferma in un’intervista: “Il bene comune è una grande cosa, […] ci siamo resi conto della sua importanza durante e dopo la pandemia. In quel periodo l'idea del bene comune ha subito un duro colpo. Quando siamo tornati alla vita quotidiana, l'idea di "ognuno per sé" era molto più forte di quella di "tutti per gli altri".
Del resto, in Giappone, il bisogno di isolarsi ha incrociato il malessere di chi non resiste alle enormi pressioni sociali e ha accentuato un fenomeno specifico e tabù: il johatsu (蒸発), “evaporato”, cioè chi volontariamente scompare, entra nell’anonimato e annulla la propria identità sociale (Nota:Il fenomeno è in aumento in tutto il mondo, ma ha un peso particolare in Giappone. Nella sola città di Tokyo esistono addirittura diverse società che aiutano professionalmente le persone che desiderano sparire senza lasciare tracce, oltre a vasti quartieri non mappati, come quello di San'ya, nel quale persone senza documenti o fuggiasche possono trovare un recetto più o meno garantito).
Hirayama non è uno johatsu, pur sfiorandone l’orizzonte. Per proteggere la propria interiorità vive ai margini, in modo radicalmente alternativo, ma in una solitudine abitata, silenziosa, mai cinica. Paga questa sua libertà con l’esperienza dolorosa dell’incomunicabilità.
Un cambio di paradigma disatteso: 生き甲斐 [Ikigai]
Wenders riflette poeticamente su di un cambiamento mancato: la pandemia aveva acceso la speranza in una società più attenta alla cura reciproca, più essenziale e consapevole. Al contrario, è seguito un ritorno alla frenesia, al consumo, alla competizione. Per superare la prevaricazione distruttiva il regista sembra suggerire la necessità di un cammino di consapevolezza verso sé stessi, quello che in giapponese si designa col termine 生き甲斐 [Ikigai]. La parola indica la ragione per cui affrontiamo ogni giorno, è la scoperta e il perseguimento del proprio scopo di vita. Tradizionalmente si basa sull'equilibrio tra ciò che amiamo fare, ciò in cui siamo bravi, ciò di cui il mondo ha bisogno e ciò per cui possiamo essere pagati. Trovare l'intersezione di queste domande conduce a una vita significativa e soddisfacente.
In linea con questo concetto, Hirayama rappresenta un nuovo tipo di rivoluzionario: resiste senza combattere, vivendo. Lavora con dedizione, senza ambizione. Ascolta, ma parla poco. Non conquista, ma ispira. Hirayama sembra attrarre chi è in ricerca di risposte esistenziali, ma pochi sono disposti a entrare nel suo mondo, fatto di silenzio e di ascolto, cioè di reale comunicazione all’interno delle azioni quotidiane. Sembra riuscirci Niko, la nipote adolescente fuggita dalla madre e con la quale non riesce a comunicare. Durante il breve periodo in cui Niko è ospite dello zio lo osserva, condivide la sua quotidianità e gradualmente compie un vero e proprio percorso di apprendistato, guadagnando libertà e consapevolezza. Dallo zio scopre che le persone possono abitare mondi diversi, a volte destinati a non incontrarsi. Wenders sottolinea così come il nostro sguardo non sia passivo, ma costruttore di senso: le piccole azioni quotidiane tessono una relazione intima con il mondo. Ma questi mondi possono scontrarsi. La scena dell’arrivo della madre di Niko – sorella di Hirayama – è un vero capolavoro: con la sua sola presenza e con poche parole la donna mostra la vulnerabilità del protagonista, riportando alla superficie antiche ferite e traumi familiari. Hirayama affronta il proprio dolore, trasformando la sua resistenza in un gesto di protezione verso la nipote Niko, divenendo un eroe silenzioso che sostiene le fragilità dell’altro per permettergli di crescere.
L’uomo-albero: 木 [ki]
Nel film viene suggerito con insistenza un simbolo, una chiave interpretativa dell’opera: l’albero. Le piantine curate con amore, le foto komorebi, fino alla torre Tokyo Skytree sullo sfondo, suggeriscono una lettura simbolica. L’albero, simbolo di vita e rigenerazione, tende alla luce, collega cielo, terra e mondo sotterraneo, un axis mundi vivente o una scala iniziatica verso una più alta consapevolezza. Risulta illuminante riflettere sul kanji che designa l’albero: 木 (ki), un pittogramma che mette in evidenza le radici più che i rami: l’essenziale – ciò che nutre, sostiene e rigenera – è invisibile.
Come un albero, Hirayama ha conosciuto una frattura, ma ha saputo rigenerarsi. La sua vita nuova, essenziale e silenziosa, è una forma di guarigione. E come l’albero vive in simbiosi con l’ambiente, così anche lui stabilisce legami sottili, impercettibili, con chi lo circonda, suggerendo una possibile ecologia delle relazioni umane, un invito a superare l’individualismo in favore di una coesistenza consapevole e compassionevole. Wenders sembra metterci in guardia rispetto ad una vita disumana e ci affida l’esempio di Hirayama, custode di una gratitudine silenziosa verso la natura alla quale riconosce un valore non utilitaristico ma esistenziale.
Uno spazio per il sacro
Perfect Days restituisce con delicatezza poetica la stanchezza dell’uomo contemporaneo verso un modello di vita performativo e accelerato, che erode il tempo dell’interiorità e delle relazioni autentiche. Hirayama compie un atto di resistenza: con la sua attenzione restituisce importanza al quotidiano, valorizza la propria umanità, vive con misura e ottiene la tranquillità. La sua vita assume tratti quasi monastici: essenzialità (povertà?), rispetto dell’altro (castità?), cura nel lavoro (obbedienza?) e solitudine. Tuttavia, a differenza del monaco, Hirayama sembra essere privo di una dimensione esplicitamente trascendente, ed è forse in questo senso che si può comprendere il suo turbamento, specie nella splendida scena finale.
Nella vita monastica, come nella vita di ogni cristiano, ogni gesto, anche il più umile, può diventare preghiera, spazio di incontro con Dio. Così ogni vita, per quanto ordinaria, invisibile, non si appiattisce sulla propria misura, sulla finitezza e in ultima analisi sulla dissoluzione nella morte, ma diventa partecipazione intima e personale alla vita stessa di Dio. In questa prospettiva anche un’esistenza irrisolta può essere in pace, immersa in quella pace profonda e continuamente donata che è frutto dell’affidarsi con fiducia a Dio.
Hirayama è un uomo che ha scelto di vivere con dignità e attenzione. Non è santo né perfetto, ma un uomo fragile e in cammino, per questo ci è vicino. La sua vita ci interroga, ci invita a cercare autenticità, a riconoscere l’essenziale. Con il suo silenzio ci educa a un ascolto più profondo, con il suo sguardo grato ci insegna a riconoscere la bellezza. E forse ci fa più sensibili a Dio, che ci cerca e che, come mendicante d’amore, attende il nostro sguardo.
Salmo 138 (139)
1 Al maestro del coro. Di David. Salmo.
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
2 tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo,
tu discerni da lontano il mio pensiero.
3 Misuri il mio camminare e il mio riposare,
e tutte le mie vie ti sono familiari.
4 Sì, la parola non è ancora sulla mia lingua,
ed ecco, Signore, già la conosci tutta.
5 Di dietro e davanti mi stringi
e poni su di me la tua mano.
6 Meravigliosa per me è la tua conoscenza,
troppo elevata: non la posso raggiungere.
7 Dove andrò lontano dal tuo Spirito?
Dove lontano dal tuo volto fuggirò?
8 Se salgo nei cieli, là tu sei!
Se discendo negli inferi, eccoti!
9 Se prendo le ali dell’aurora
e vado ad abitare al di là del mare,
10 anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
11 Se dico: “Solo la tenebra mi risucchi
e notte sia la luce intorno a me!”,
12 nemmeno la tenebra per te è tenebrosa,
la notte è luminosa come il giorno,
la tenebra è come la luce.
13 Sì, sei tu che hai plasmato il mio profondo,
mi hai tessuto nel grembo di mia madre.
14 Ti rendo grazie perché stupendamente
sono stato fatto una meraviglia:
meravigliose sono le tue opere,
il mio essere le riconosce pienamente.
15 Non ti erano nascoste le mie ossa
quando ero formato nel segreto,
ricamato nelle profondità della terra.
16 I tuoi occhi videro il mio embrione
e sul tuo libro furono tutti scritti i giorni,
fissati quando non ce n’era nemmeno uno.
17 Quanto preziosi per me i tuoi pensieri, o Dio,
quanto numerosa la loro somma!
18 Se li conto, sono più della sabbia,
mi risveglio e sono ancora con te.
19 O Dio, se tu sopprimessi il malvagio!
Uomini sanguinari, allontanatevi da me!
20 Parlano di te, ma con perfidia,
giurano il falso i tuoi avversari.
21 Non odio forse, Signore, chi ti odia,
non detesto forse quelli che si levano contro di te?
22 Li odio con odio implacabile,
sono per me dei nemici.
23 Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore,
sondami e conosci i miei affanni.
24 Vedi se sono su una via idolatrica
e guidami sulla via dell’eternità.
SALMO 138 (139)
SONO RISORTO E SONO ANCORA CON TE
Chi prega oggi il bellissimo salmo 138 (139) - una delle vette poetiche dell’intero salterio - nella traduzione della Bibbia CEI (2008) o utilizzando i libri liturgici per la preghiera delle ore, non si imbatterà mai nell’espressione che dà il titolo al presente commento. Il lettore la cercherà altrettanto inutilmente nella versione da noi proposta in queste pagine (Si tratta della traduzione presente in: L. MONTI, I Salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Bose 2018, pp. 1607-1609). «Mi risveglio, e sono ancora con te»: sono queste le parole con cui la versione greca dei LXX di questo salmo traduce la seconda parte del versetto 18, nettamente diversa dalla versione ebraica, che riporta invece «li credo finiti [i tuoi pensieri], ma presso di te ve n’è ancora». Appoggiandosi alla versione greca del salmo, la liturgia romana ha posto questa espressione del salmo 138 (139) come prime parole dell’antifona di ingresso dell’Eucaristia del giorno di Pasqua, reinterpretandola a partire dal mistero della morte e risurrezione di Cristo: «Resurrexi, et adhuc tecum sum, alleluia», «Sono risorto, e sono ancora con te, alleluia». Non solo, ma l’antico canto dell’Exultet - solennemente proclamato nella veglia della notte di Pasqua - riporta alcuni versetti di questo salmo: «la notte splenderà come il giorno, e la notte sarà illuminazione per la mia delizia» (vv. 12; 11b). È possibile dunque, senza indebite forzature, rileggere l’intero salmo 138 (139) come salmo pasquale, o meglio come la celebrazione della vittoria di una nuova nascita dopo essere passati attraverso le tenebre della morte. Alla luce del mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù trovano inoltre una loro armonizzazione le tre parti di cui il salmo è composto:
1) versetti 1-18: sono interamente pervasi dalla lode e dalla meraviglia, in cui lo stupore del salmista diventa quasi incanto di fronte alle opere stupende compiute da Dio nella sua vita.
2) versetti 19-22: registrano un brusco cambio di tono, e fanno spazio a durissime parole imprecatorie, in cui si chiede a Dio di annientare il nemico.
3) versetti 23-24: l’orante ritorna ad invocare il Signore, chiedendogli di guidare le sue vie.
Come comporre tra di loro queste tre parti del salmo, così radicalmente diverse? Una possibile ipotesi ritiene che i versetti centrali e finali (vv. 19-24) siano stati aggiunti in un momento successivo, e che inizialmente appartenessero addirittura ad un’altra composizione. Seguendo questa linea la liturgia delle ore ha ritenuto lecito tagliare i versetti imprecatori (vv. 19-22) rendendo così il salmo un canto di lode e ringraziamento a Dio per i suoi prodigi, perfettamente omogeneo al suo interno.
Se si segue questa linea interpretativa non trova però spiegazione la presenza di una grande inclusione che abbraccia tutto il salmo, ossia la presenza nel versetto iniziale di due verbi fondamentali (Signore, tu mi scruti e mi conosci, v. 1) che sono ripresi in modo identico nella parte conclusiva (scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, v. 23). È quindi altrettanto verosimile che il salmo abbia una sua unitarietà, anche se essa risulta attraversata da diverse tensioni interne.
Anzitutto, è necessario chiedersi: chi era quest’uomo e in quale situazione si trovava quando ha rivolto a Dio questa splendida preghiera? Diversi studiosi (Cfr. L. Monti, I Salmi: preghiera e vita, p. 1612) sostengono che si tratti di un uomo che sta per essere sottoposto ad un giudizio, dopo essere stato oggetto di una grave accusa, forse quella di idolatria, come sembra suggerire la possibile traduzione dell’ultimo versetto (vedi se percorro una via idolatrica). In ogni caso, è un uomo la cui vicenda umana non è stata sempre lineare: ha vissuto con passione tutto quello che la vita gli ha regalato, dalle vette più alte della gioia fino all’abisso della disperazione (se salgo nei cieli, là tu sei, se discendo negli inferi, eccoti), dalla coscienza di essere stato plasmato in modo prodigioso (sono stato fatto una meraviglia, v. 14), fino all’aver sperimentato la connivenza con chi è portatore di morte (uomini sanguinari, allontanatevi da me!, v. 19b). Egli rilegge ora la sua storia e con stupore riconosce che il Signore ha sempre guardato con amore a tutto ciò che lui ha vissuto. I verbi usati in ebraico per esprimere questa custodia amorevole dicono in modo ricchissimo il modo in cui Dio entra in relazione con quest’uomo: ḥaqar (scrutare) non fa riferimento tanto ad uno sguardo indagatore o che tiene sotto controllo, ma ad una presenza familiare (ti sono familiari tutte le mie vie, v.3b), potremmo dire “di casa”, tipica di chi c’è sempre stato nella vita di un altro, vuole il suo bene e per questo ci tiene a condividere con lui ogni evento, le gioie come i dolori, i successi come i passi falsi. Nella stessa linea va il verbo jada‛ (conoscere), che non indica né una conoscenza intellettuale né un semplice entrare in contatto con qualcosa o qualcuno, ma il giocarsi dentro un incontro fatto di esperienze concrete vissute insieme, lasciando che sia l’altro ad essere la fonte della propria gioia ma accettando anche il rischio che l’incontro con l’altro possa procurare qualche ferita.
I versetti che seguono (vv. 2-12) descrivono le conseguenze di questa relazione profonda e viscerale. Il Signore è presente in ognuno degli “estremi” che quest’uomo vive: nell’alzarsi come nel sedersi, quando cammina e quando riposa, davanti a sé e dietro di sé, nelle sue altezze e nei suoi abissi, nelle sue tenebre come nelle sue luci, perché per il Signore «la tenebra è come la luce» (v. 12). Questo non significa che la relazione con il Signore elimini automaticamente ogni tenebra, ma che ciò che quest’uomo è tentato di vivere come tenebra assoluta - senza via di scampo e senza possibilità di accedere alla luce - in Dio trova un riscatto: anche nell’abisso più grande l’amore di Dio è capace di far germogliare la luce di una nuova speranza. Come scrive Alberto Mello:
Per l’uomo provato, spiritualmente maturo, perfino gli inferi sono abitati dalla presenza di Dio, perfino là è ancora possibile cantare la sua misericordia. Non che egli sia ormai “al di là del bene e del male”: questo no. Ma egli può andare al di là di certe distinzioni consuete nella vita spirituale, come quella fra le tenebre e la luce, perché sa che in Dio tali distinzioni sono molto relative (A. MELLO, I salmi: un libro per pregare, Qiqajon, Bose 2007, p. 185).
Questa è in fondo l’esperienza del cristiano: partecipare alle tenebre della morte di Gesù per vivere con lui da risorti, come afferma la seconda lettera a Timoteo: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo» (2Tm 2,11).
A partire dal v. 13, dopo aver ringraziato Dio per la cura che egli dimostra verso la sua esistenza, il salmista osa a questo punto sporgersi oltre la propria vicenda umana, gettando lo sguardo su ciò che la precede e su quello che sarà la sua destinazione ultima. «I tuoi occhi videro il mio embrione» (v. 16a). Il salmo riprende qui le parole che il profeta Geremia si era sentito rivolgere all’inizio della sua storia: «prima di formarti nel grembo materno ti ho conosciuto» (Ger 1,5). In realtà il termine golmi (embrione) si riferisce ad una sorta di tessuto arrotolato che viene pian piano dispiegato. Il Signore dispiega con la forza del suo amore il rotolo che contiene la storia della nostra vita, il libro della memoria sul quale i nostri giorni sono già tutti scritti, e al contempo tutti ancora da vivere. L’immagine tenta così di rendere l’inestricabile compresenza nella nostra vita di grazia e libertà: non c’è nulla che sia già pre-determinato in modo assoluto da parte di Dio, niente di già predefinito che possa fagocitare la nostra libertà neutralizzandola. In Dio c’è soltanto puro desiderio di bene, che dispone tutte le condizioni perché ciascuna vita umana possa esprimersi in tutte le sue potenzialità, perché il nostro embrione possa srotolarsi e dare corpo alla nostra storia personale con le sue pagine ricche di gioia, di dedizione e di servizio reso a Dio e ai fratelli, ma anche con i suoi lati oscuri e con le sue contraddizioni: «tutto tu guardi e prendi nelle tue mani» fa eco un altro salmo all’inizio del salterio (Sal 9,35).
Origine e destino finale: l’esistenza di ogni singolo essere umano è racchiusa tra questi due insondabili misteri. Siamo così posti di fronte a due tra le più grandi domande esistenziali che da sempre abitano il cuore umano: dov’ero prima di comparire nel seno di mia madre? Qual è la meta verso la quale la mia vita sembra dirigersi in una corsa inarrestabile? La risposta del salmo non è di carattere metafisico, né cerca una soluzione filosofica valida per chiunque: il salmista traduce in versi di toccante intensità la sua personale relazione con questo Dio che da sempre lo ha voluto e amato e che per questo abiterà di certo anche il suo futuro. «Guidami sulla via dell’eternità»: così tradotte, le parole con cui si chiude il salmo 138 possono sembrare una supplica un po’ generica, un desiderio vago e astratto che i propri giorni non si concludano nel nulla. In realtà l’espressione è carica di una forte concretezza, perché qui il salmista chiede a Dio di condurlo per una strada sulla quale egli possa trovare qualcosa per la quale valga la pena di vivere e di morire. Parafrasando il testo, è questo che l’orante chiede in definitiva a Dio: «Promettimi che ci sarà per me un altro giorno in cui io possa continuare a vivere, ad amare, a spendermi per amore tuo e del prossimo». Da qui sgorga l’autentica speranza cristiana, quella che stiamo invocando lungo tutto questo anno giubilare: avere speranza significa in fondo credere che ci sia un altro giorno da vivere in pienezza, da accogliere come dono, fino al Giorno definitivo ed eterno in cui il nostro cammino troverà il suo compimento.
Da martedì 26 novembre a martedì 8 dicembre i nostri fratelli Davide e Alberto Maria, insieme ad alcuni membri dei gruppi italiano e coreano del DIM (Dialogo Interreligioso Monastico) hanno vissuto una pionieristica esperienza di incontro con il monachesimo buddhista in Thailandia e di pratica di meditazione vipassanā, nella prospettiva del dialogo spirituale che il DIM promuove ormai da alcuni decenni. Un’esperienza, questa, pensata e realizzata insieme a padre Daniele Mazza, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), in Thailandia dal 2008. Oltre ai due nostri fratelli, il gruppo era formato da: fr. Matteo Nicolini-Zani, del Monastero di Bose e coordinatore del DIM in Italia; suor Benedetta Bucchi, monaca del Monastero delle Adoratrici Perpetue del Ss. Sacramento di Monza; suor Sara Ricciardi, monaca del Monastero delle Clarisse di Urbino; p. Anselmo Park, monaco dell’Abbazia benedettina di Waegwan e coordinatore del DIM in Corea del Sud.
Giovedì 5 dicembre il nostro priore fr Andrea ha partecipato al Tavolo della Vita Consacrata promosso dalla diocesi di Milano. L’incontro si è svolto nella sede della Curia Arcivescovile di Milano.
Venerdì 6 dicembre sempre fr Andrea è sceso a Luino per tenere una meditazione nell’ambito della scuola di preghiera organizzata dal nostro decanato.
Sabato 14 dicembre, nell’ambito delle “Giornate di dialogo”, abbiamo ospitato il prof. Roberto Radice che ci ha parlato del tema: “Il Cristianesimo è compimento delle attese dei filosofi?”, in chiaro collegamento con il periodo liturgico dell’Avvento che introduce al Natale.
Martedì 17 dicembre il nostro fratello Alberto è andato a Vizzola Ticino per offrire una meditazione sulla lettera di Giacomo a un incontro di preghiera organizzato nella chiesetta di San Giulio. Lo stesso giorno, fr Adalberto ha concluso il suo insegnamento all’Istituto Liturgico Santa Giustina di Padova avendo compiuto 70 anni.
Venerdì 20 dicembre abbiamo vissuto una giornata di ritiro comunitario in prossimità del Natale. È la prima del nuovo anno liturgico, che il nostro priore Andrea ha deciso di dedicare alla lettura del Deuteronomio.
Sabato 21 dicembre il nostro fratello Giovanni è andato a Carugate (MI) per partecipare alla celebrazione eucaristica nella quale Claudio e Alessandro (originari di quella parrocchia) hanno pronunciato la loro Promessa definitiva di appartenenza al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME).
Domenica 5 gennaio 2025, nel pomeriggio, abbiamo ospitato un concerto di Daniele Dupuis, in arte “Megahertz”, che ha interpretato i brani della “Buona novella” di Fabrizio De André con il coinvolgimento di alcuni fratelli della comunità.
Martedì 7 gennaio il nostro fratello Nicola viene ricoverato all’ospedale di Castellanza (VA) per l’inserimento di una protesi al ginocchio sinistro.
Sabato 11 gennaio tutta la comunità si è recata ad Agra, comune confinante con Dumenza, per partecipare alla celebrazione eucaristica nella quale si è dato il saluto ufficiale alla comunità delle Monache Romite che hanno lasciato il monastero per riunirsi alle Romite della Bernaga (comune di Perego - Lc) dalle quali sono state fondate più di 50 anni fa. Erano presenti anche i preti e le sorelle delle altre comunità religiose del decanato di Luino.
Da lunedì 13 a sabato 18 gennaio abbiamo vissuto la nostra settimana di esercizi spirituali. A guidarci quest’anno è stato Guido Dotti, monaco della Comunità di Bose (BI), il quale ci ha proposto un itinerario a partire dalla metafora del viaggio e tenendo presente anche uno sfondo ecumenico. Abbiamo apprezzato il suo stile e la sua saggezza, maturata da una lunga esperienza in monastero e dal contatto frequente con cristiani di altre confessioni.
Giovedì 23 gennaio, in serata, l’ingegnere termotecnico Andrea D’Ascanio, dell’Azienda “Sinergia S.C. Energy Saving Company” di Vicenza, ci ha illustrato una proposta di massima per la riqualificazione energetico-termica di tutto il complesso monastico. La prospettiva è quella di sostituire le attuali due caldaie per optare verso energie pulite e rinnovabili. È un grosso intervento che richiede anche un grande impegno economico.
Venerdì 24 gennaio il nostro fratello Nicola, dopo un periodo di riabilitazione, è stato dimesso dall’ospedale ed è tornato in monastero in ottima forma, giusto in tempo per festeggiare il suo compleanno (in questo giorno infatti ha compiuto ben 89 anni!).
Sabato 1 febbraio, vigilia della festa della Presentazione del Signore, nel pomeriggio, abbiamo raggiunto Milano per partecipare al Giubileo diocesano della Vita consacrata. È stato un bel momento di preghiera e di festa, iniziato nella basilica di San Carlo al Corso con il coro Elikya e proseguito in Duomo con la solenne celebrazione presieduta dall’arcivescovo mons. Mario Delpini. La partecipazione è stata numerosa e si è potuta constatare - anche visibilmente - la presenza ormai quasi maggioritaria delle consacrate di origini extraeuropee.
Da martedì 4 a giovedì 6 febbraio, il nostro fratello Adalberto ha partecipato alla Consulta dei maestri dei novizi nel monastero di San Paolo Fuori le Mura, a Roma, in preparazione dell'incontro a luglio per i formandi, a La Verna. Il tema sarà il rapporto tra preghiera personale e liturgica.
Da sabato 22 a lunedì 24 febbraio sono passati a trovarci tre monaci ortodossi russi, p. Sergej, monaco del monastero Novospasskij di Mosca e superiore del piccolo monastero di Sumarokovo, p. Alexander e p. Igor, preti del clero di Mosca.
Lunedì 23 febbraio, fr Adalberto ha raggiunto il monastero di Camaldoli (AR) per partecipare alla consulta dei maestri e maestre dei novizi/e di alcuni monasteri del nord e centro Italia. Si è riflettuto sul rapporto tra spiritualità e psicologia e sul ruolo di tale relazione nell'ambito formativo dei nostri monasteri. Tale incontro è stato animato da p. Michel van Parys, del monastero di Chevetogne e da d. Giuseppe Sovernigo, prete di Treviso e psicologo.
Giovedì 27 febbraio il nostro fratello Alberto Maria è andato a Vizzola Ticino per offrire una meditazione sulla lettera di Giacomo a un incontro di preghiera organizzato nella chiesetta di San Giulio.
Venerdì 28 febbraio è arrivato p. Sebastian del monastero benedettino di San Martino di Beuron in Germania, che si è trattenuto per una settimana.
Domenica 9 marzo, in mattinata, i nostri fratelli Andrea, il priore, ed Emanuele hanno partecipato alla celebrazione per l’ingresso ufficiale di don Gabriele Ferrario come parroco delle parrocchie di Dumenza, Agra, Curiglia, Maccagno e Tronzano. Una delle diverse celebrazioni si è svolta infatti nella chiesa di San Giorgio di Runo, frazione di Dumenza. Sempre domenica, nel pomeriggio, il nostro fratello Adalberto è partito per tenere un corso di esercizi spirituali ai preti di Mantova.
Lunedì 24 marzo è tornato a farci visita il nostro fratello Luca, ora Abate del monastero di Montecassino. L’occasione gli è stata data da alcune pratiche giuridiche da sbrigare.
Giovedì 27 marzo, il nostro priore, fr Andrea, e fr Adalberto hanno partecipato a Milano al Tavolo sulla Vita Consacrata. L’incontro si è svolto, come le altre volte, nella sede della Curia Arcivescovile di Milano.
Sempre giovedì 27 marzo, in serata, abbiamo avuto invece l’incontro con Teresa Ricco e Claudio Jaccarino che hanno raccontato con molta passione il loro vissuto di coppia segnato soprattutto dall’esperienza teatrale della “Comuna Baires”, prima a Milano e poi, per alcuni anni, in Argentina, e dal coinvolgimento in molte lotte sociali e politiche nei decenni di fine Novecento.