“Allora adesso siete un monastero green!”
Questa e simili espressioni stanno cominciando a circolare tra gli ospiti e gli amici che recentemente sono passati in comunità. Ciò è dovuto al fatto che si stanno concludendo i lavori di riqualificazione energetica programmati per quest’estate, che sono stati svolti con competenza, velocità, collaborazione e anche rispettando lo stile e l’ambiente monastico. Rarissime e puntuali sono state le attività davvero rumorose, non ci si è quasi accorti di avere in casa operai e tecnici molto indaffarati...
Nel numero 38, del dicembre 2024, di questa newsletter, era stato auspicato e programmato un intervento che ponesse rimedio allo stato ormai terminale delle caldaie a legno e gasolio che per vent’anni hanno provveduto a riscaldare i nostri ambienti e fornirci l’acqua calda sanitaria. Avvalendoci delle competenze di Sinergia, una azienda di Vicenza particolarmente specializzata in soluzioni ecocompatibili per il riscaldamento, e appoggiandosi poi alla vicina Green Calor di Luino e alle sue maestranze per la realizzazione effettiva del progetto, abbiamo accolto e aderito alla proposta di una riqualificazione combinata, che ora vede la triplice “concorrenza” di una caldaia a legno cippato, di tre pompe di calore e di due serie di pannelli fotovoltaici posizionati sui lati sud ed est del tetto. Mancano delle piccole rifiniture legate alla regolazione delle temperature nei singoli ambienti e alcune certificazioni tecniche, ma ormai il grosso del lavoro è terminato e l’impianto è già in funzione.
Entrando un po’ nel dettaglio, nella precedente centrale termica sono stati posizionati due “puffer”, due grandi serbatoi da 2500 litri ognuno dove viene immagazzinata l’acqua calda e mantenuta in temperatura per ottemperare alle richieste dell’impianto, un terzo serbatoio della medesima capienza insieme a una pompa di calore sono stati posti nel locale esterno della lavanderia mentre la caldaia insieme al deposito di legno cippato (frantumato in piccoli pezzi) sono stati collocati dove c’era la falegnameria. Le tre grandi – ma silenziose – pompe di calore, che verranno utilizzate soprattutto nelle mezze stagioni e che si “nutriranno” dell’energia elettrica prodotta dai pannelli fotovoltaici, sono all’esterno, sul retro della casa, con un impatto visivo rispettoso dell’ambiente e comunque ordinato. Minimi sono stati i lavori edili, molto più significativi quelli idraulici ed elettrici ma tutti svolti da professionisti qualificati e che hanno anche saputo integrarsi felicemente con le dinamiche e i tempi di una comunità monastica. Particolare non secondario: tutto l’impianto può essere gestito – ed effettivamente lo è – a distanza, mediante un programma informatico che agisce da remoto. La dimensione meccanica-manuale più significativa sarà lo sversamento in tempi programmati del legno cippato nel locale adiacente alla caldaia. Abbiamo anche provveduto a bonificare la cisterna del gasolio precedentemente impiegato e, a completamento di tutta questa attività, si sta procedendo anche ai lavori che riguardano l’anello antincendio che circonda la casa, ottenendo anche il certificato di prevenzione incendi.
Nel citato editoriale dello scorso anno si prevedeva “un cantiere prolungato” (p. 5): siamo felici di essere stati smentiti su questo aspetto; sono infatti stati rispettati i tempi e questo ci permette di sperare di poter ottenere anche dei significativi incentivi che andrebbero ad alleggerire la spesa complessiva dell’opera.
Papa Leone XIV, sulla scia di papa Francesco e della sua Laudato si’, ci esorta affinché «l’ecologia integrale sia una scelta sempre più condivisa». Questo nostro progetto energetico vuole essere un piccolo segno di collaborazione al recupero della centralità della salvaguardia del creato per la vita di tutti gli uomini. Speriamo possa essere contagioso. (Di fr Andrea, priore)
Tra il 6 e il 7 novembre 2025, con tre amici della Fondazione Beato Angelico di Milano, abbiamo intrapreso un viaggio di studio sulle tracce dell’artista cappuccino fra Roberto Pasotti, oggi novantaduenne.
La prima tappa del nostro itinerario è stata la cappella dei Vedeggi, a Magliaso, affrescata da fra Roberto in uno dei momenti più fecondi della sua produzione, a metà degli anni Ottanta, e restaurata di recente (2025) con il contributo diretto dell’artista. Situata ai margini del villaggio, l’opera si distingue per la scelta del soggetto - rispetto alle sue consuete Vie Crucis o Ultime Cene - e per la presenza di motivi che ricorrono in tutta la sua ricerca.
Le grandi mani e i grandi occhi, cifra riconoscibile del suo linguaggio, risentono dell’influsso di Ferdinand Gehr (a cui abbiamo dedicato le copertine dell'anno scorso), maestro dell’arte sacra svizzera del Novecento, conosciuto da Pasotti attraverso Hans Stocker. La lezione di Gehr - la sua astrazione tesa al simbolo - orienta, sul finire degli anni Settanta, la pittura di fra Roberto verso una visione più luminosa e sintetica. Ne è esempio il vasto manto blu di Maria, che sembra dilatarsi in un’apparizione di aria e luce.
Il tema della luce percorre tutta la sua opera: spesso trattata in modo filamentoso, quasi impressionista, essa diventa un campo vitale irradiante da cui emergono le figure. A questi ampi sfondi si aggiunge un elemento tipico della sua poetica: la cornice interna, evocata qui dai due stipiti che, come una soglia, danno profondità e realismo alla scena della Maternità. Questa “porta” allude chiaramente alla Janua Coeli, la Porta del Cielo delle litanie lauretane, attraverso la quale ci giunge la figura del Salvatore.
Maria si presenta così come via attraverso cui ci raggiunge Gesù, ed è interessante osservare questa teologia incentrata su tre diversi piani:
- la luce, come un'iridescenza indistinta che evoca il cerchio, l'arco, l'aureola o l'aura;
- la porta, sempre trattata in modo luminoso e non realista, che funge da chiave teologica per interpretare il dipinto
- la figura della madre con il bambino, avvolta come in un'ampia vela azzurra, la cui consistenza di tela e di tessuto è data dai potenti tratti blu scuro e dalla spigolosità delle linee, che rimandano a una dimensione terrena dell’Incarnazione.
In questo processo, che sembra voler parlare di Maria partendo dalle scaturigini della luce, sorprende la discrezione con cui è trattato Gesù: piccolo, raccolto, quasi nascosto. Una chiave veramente francescana. Si scorge appena la testa, una minuta aureola, e la carezza alla madre, gesto che rimanda alle Madonne della tenerezza tanto amate nel Duecento italiano, eredi della tradizione bizantina dell’Eleousa.
Questo dettaglio commuove. Nella delicatezza di quello scambio di sguardi - umanissimo e insieme trasfigurato - si condensa la fede francescana nella piccolezza di Betlemme, nell’amore del Padre che si rivela nel Figlio per mezzo dello Spirito. È qui il cuore della ricerca dell'uomo, la manifestazione dell'amore così come Francesco l'ha riconosciuto e cantato.
Questo sguardo d’amore tra Madre e Figlio, in una piccola edicola al margine del cammino, accanto alla strada, è un segno per i viandanti. Il loro sguardo accompagna chi ritorna a casa, chi riprende fiato dopo il lavoro, chi passa per la via. È una porta di luce che consola e rinvigorisce: un amore che sostiene il passo dell’uomo e lo immerge nella tenerezza di Dio.
In fondo, l’opera di fra Roberto Pasotti non invita tanto a guardare quanto a varcare una soglia: quella della luce che diventa volto, del colore che si fa preghiera.
Nella cappella dei Vedeggi, Maria non è solo immagine, ma presenza discreta che apre il cielo sulla terra.
E in quella carezza, nel gesto che unisce Madre e Figlio, ogni viandante può riconoscere la promessa di un ritorno: la certezza che ogni cammino, se attraversato dalla luce, conduce alla tenerezza di Dio. (Di fratel Alberto Maria)
Perché Benedetto patrono d’Europa?
Il ruolo del monachesimo benedettino nella configurazione dell’identità europea si colloca ben oltre la semplice ricostruzione storica, assumendo i contorni di un’esperienza spirituale e antropologica di profonda e perdurante attualità. Il contributo di san Benedetto da Norcia alla “tessitura” del continente europeo, sebbene non solitario, si è rivelato in effetti fondamentale, ed è stato riassunto icasticamente da papa Paolo VI nella triade simbolica di “croce, libro e aratro”.
La persona umana recuperata a se stessa
La vera grandezza di san Benedetto non risiede nell’estensione geografica della sua missione, quanto piuttosto nella profondità dell’esperienza umana e spirituale che ha saputo codificare. Il fulcro di questa grandezza è un vero e proprio progresso umano e ciò costituisce il primo e più essenziale dono all’Europa. L’immagine chiave in tal senso è l’habitare secum, il “dimorare con se stesso”, mutuata dai Dialoghi di san Gregorio Magno e tradotta da Paolo VI con l’espressione “l’uomo recuperato a se stesso”. San Paolo VI individuava in questo sguardo rinnovato sulla persona umana anche la grande novità del Concilio, una novità in continuità proprio con l’umanesimo benedettino. Egli affermava a chiusura del Concilio Vaticano II, il 7 dicembre del 1965, che «il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico, tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo». Nella ricerca di Dio si diventa, infatti, cultori dell’uomo e questo mi pare sia stato il primo filo che il monachesimo benedettino ha apportato alla tessitura di un’identità europea. Il filo fondamentale, dal quale dipendono gli altri. La vita monastica, in questa prospettiva, è la via attraverso cui la persona ritrova la propria verità profonda.
La dilatazione del cuore
Questa riconquista di umanità si manifesta nella dilatazione del cuore (dilatatio cordis), un concetto mistico descritto da Gregorio Magno come la visione in cui il mondo intero appare raccolto in un unico raggio di luce, non perché il mondo si sia rimpicciolito, ma perché il cuore del monaco si è allargato alla misura smisurata dello sguardo di Dio. La dilatatio cordis è la capacità di abitare la complessità della storia senza soccombere alla dispersione, realizzando la “logica dell’et...et” e non più la contrapposizione (aut aut), ossia attraverso l’integrazione di dimensioni spesso percepite come inconciliabili. Il cuore dilatato è un cuore che non contrappone, ma integra, tiene insieme, fa incontrare. Il cuore dilatato è un cuore che suscita l’incontro, che accende il dialogo e il confronto. Benedetto e i suoi discepoli hanno dato quest’anima all’Europa, facendo incontrare popoli, culture, visioni inizialmente lontane, divise, contrapposte, conflittuali. Le hanno fatte incontrare e convergere, non riducendo le loro differenze, ma integrandole.
Croce, libro e aratro
Nel titolo di questo incontro risuonano le tre immagini usate da Paolo VI nella sua lettera Pacis Nuntius per sintetizzare il contributo del monachesimo benedettino all’identità europea: la croce, il libro, l’aratro. Questa triade simbolica è la manifestazione concreta della integrazione di cui è capace il cuore dilatato. La croce, cioè la fede, si fa libro, e dunque cultura, e la cultura a sua volta si incarna nel lavoro, e dunque in impegno solidale nella storia per la trasformazione del mondo. D’altra parte l’impegno storico è ispirato dalla fede e animato da una visione culturale; la cultura stessa non separa Dio e l’uomo, l’immanenza e la trascendenza; la vita spirituale è fuga dalla mondanità, ma non dal mondo, e non solo dà un’anima al lavoro, ma si nutre del lavoro stesso e lo assume come luogo per una crescita umana e spirituale.
La fede come fattore unificante
La croce, in primo luogo, è stata il fattore unificante della fede cristiana. Durante i secoli bui delle invasioni barbariche, quando l’Impero romano si disintegrava, fu l’adesione all’“unica fede di Roma”, promossa capillarmente dai monaci, a sanare le divisioni tra i popoli e a creare una coscienza europea comune. Dove la spada aveva separato, la croce univa.
La cultura tra eredità pagana e novità cristiana
Il libro rappresenta la cultura. La priorità data nella Regola di San Benedetto alla lectio divina ha reso i monasteri centri vitali di conservazione e irradiazione culturale. Pur non avendolo come scopo primario, i cenobi benedettini sono divenuti di fatto custodi dell’eredità classica pagana e, contemporaneamente, fucine della nuova sintesi culturale cristiana. Essi hanno forgiato il latino cristiano medievale come veicolo linguistico unitario, ponendo le basi per una civiltà fondata sul primato dello spirito e sulla dignità della persona.
Un lavoro liberato e umanizzato
Infine, l’aratro allude al lavoro, inteso come elemento di liberazione e di profonda umanizzazione. Contro la concezione greco-romana che relegava il lavoro manuale alla condizione servile, il monachesimo cristiano gli ha conferito una dignità spirituale e antropologica, facendone un atto di servizio per i fratelli e un mezzo per l’accoglienza dei poveri e degli ospiti. Il lavoro monastico, come la bonificazione delle terre, è stato visto simbolicamente come l’atto di “sottrarre terra al deserto” per restituirla a una dimensione di giardino, di spazio coltivato, custodito, umanizzato.
A questo proposito è utile rifarsi alla lezione di dom Benedetto Calati, il quale insisteva nel ricordare che l’ora et labora della tradizione benedettina è «come una eco di quanto la riflessione calcedonese affermava di Gesù Cristo, Dio e uomo»1.
Dalla memoria alla profezia
I monaci benedettini hanno fornito un contributo decisivo all’unità spirituale, culturale ed economica dell’Europa, ma oggi la proposta monastica si trova in uno scenario mutato ed è perciò chiamata a passare “dalla memoria alla profezia”. Molti suoi valori - come la lectio divina, la cultura diffusa e l’umanizzazione del lavoro (il libro e l’aratro) - sono ormai ampiamente “travasati” e condivisi in contesti profani. Questo può permettere al monachesimo di riaccendere un dialogo e di intessere alleanze con il mondo civile e laico per un lavoro e una cultura più umani, senza rivestire un ruolo di primo piano. Tuttavia, rimangono tre gli ambiti in cui il monachesimo potrebbe essere ancora protagonista.
Il primato della ricerca
La croce si traduce oggi nel primato della ricerca. In un contesto multireligioso e pluralistico, la croce invita il monaco a incarnarsi come via per un’autentica ricerca di Dio. I monaci, come “cercatori di Dio” (si revera Deum quaerunt), devono affiancare e aiutare chi vive la ricerca di senso, anche quando questa non è consapevolmente religiosa. L’icona più adatta a questo compito è quella dei discepoli di Emmaus: come Cristo che si accosta da straniero, il monaco deve essere “compagno di viaggio”, ascoltando le domande e condividendo la ricerca di quanti sono in cammino, senza la fretta di fornire risposte che potrebbero interrompere il dialogo e abortirlo sul nascere. La ricerca, se autentica, condurrà necessariamente al Vivente.
In questo senso, il nuovo Abate Primate, padre Jeremias, anche nella prospettiva della celebrazione nel prossimo 2029 dei 1500 anni di nascita di Montecassino, desidera suscitare un approfondimento sul tema dei luoghi e sull’importanza che i luoghi hanno nella tradizione cristiana e nell’esperienza ecclesiale. Se, infatti, esiste una pastorale ordinaria che si è più preoccupata dei territori, nondimeno la vita cristiana e l’evangelizzazione hanno sempre avuto bisogno di luoghi significativi: monasteri, santuari, cammini, e così via. I monasteri possono ancora costituire una risorsa come luoghi di ricerca autentica nello Spirito.
Una nuova sintesi culturale
Il libro ci ricorda l’esigenza di una nuova sintesi culturale, in particolare per l’Europa, che tenga conto del suo essere una regione pluralistica e non più il centro dell’umanità. Tale cultura si svilupperà ricercando un incontro con le altre culture globali. Il monachesimo offre in questo senso due risorse: innanzitutto, la sua intrinseca attitudine anti-idolatrica. La vita monastica che insegna a “non anteporre nulla all’amore di Cristo” è, infatti, la premessa per discernere e per abbattere gli idoli del tempo odierno, quegli idoli che, rendendo cieco, sordo e muto chi crede in essi, deformano sia il volto di Dio che quello dell’uomo. In secondo luogo, il monachesimo può offrire un criterio di discernimento nel confronto ineludibile con l’Intelligenza Artificiale e le nuove tecnologie. L’attenzione alla corporeità, vista da alcuni esperti come la differenza più sostanziale tra l’intelligenza umana e quella artificiale, è infatti un aspetto cruciale della Regola.
Il lavoro tra etica dei valori ed etica dei bisogni
L’aratro, infine, è un simbolo che spinge a ideare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale che non può fondarsi solamente sul mercato comune, sebbene esso rimanga comunque un criterio non solo utile, ma necessario. San Benedetto ha mostrato, infatti, che il non anteporre nulla all’amore di Cristo e all’Opus Dei non costituisce un’alternativa, ma un fondamento per stili precisi di organizzazione lavorativa ed economica. La ricerca di Dio per essere vera deve accadere dentro quello spazio di obbedienza che è il lavoro. Dunque, non ci sarà un’Europa unita senza considerare le dinamiche legate ad una nuova economia e ad un nuovo sviluppo. In questa prospettiva, un criterio fondamentale, tratto dagli Atti degli Apostoli e citato nella Regola stessa, è che “a ciascuno deve essere dato secondo la misura del suo bisogno”. Ciò implica integrare l’etica delle virtù con l’etica dei bisogni: è etico non solo ciò che esprime le qualità virtuose personali, ma ciò che risponde al bisogno degli altri.
In un futuro segnato dai cambiamenti radicali del lavoro (anche a causa dell’intelligenza artificiale), sarà richiesta una competenza etica per guidare verso il bene comune i processi innescati. Come suggeriva papa Francesco nel suo messaggio per la pace del primo gennaio 2024, la riflessione su intelligenza artificiale e pace deve portare alla formulazione di quadri normativi che considerino la “voce di tutte le parti interessate”, inclusi i poveri, gli emarginati e coloro che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali. I poveri, direbbe san Benedetto, con la loro presenza sono coloro che possono far valere l’autorità dei loro bisogni. (Testo originario di fr Luca Fallica, abate di Montecassino, rivisto per la pubblicazione da fr Davide)
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[1] B. Calati, «Il lavoro nella storia del monachesimo», in Aa.Vv., La mediazione culturale nel monachesimo, Tipolitografia Benedettina Editrice, Parma 1987, pp. 219-236: 221Nel vasto panorama della storia armena e della Chiesa universale, la figura dell'Abate Mechitar di Sebaste (1676-1749) emerge come quella di un uomo di fede che seppe armonizzare l'ascesi monastica orientale con la profonda adesione al centro romano della cattolicità. Fondatore della Congregazione Armena Mechitarista, egli è ricordato come uno dei più insigni riformatori spirituali e culturali del suo popolo, capace di trasformare una modesta comunità in un faro di illuminazione per l'intera nazione armena, guidandola verso un rinnovamento profondo. Mechitar non fu semplicemente un iniziatore di un ordine religioso, ma un vero educatore di anime e un tramite spirituale tra culture e tradizioni diverse. Nella sua persona si fusero la profondità contemplativa dell'Oriente e la sistematicità razionale dell'Occidente. Egli seppe interpretare i segni del suo tempo, rispondendo con un'opera che ancora oggi sorprende per equilibrio, forza interiore e rilevanza.
Una vita dedicata alla verità e alla comunione
Nato a Sebaste, in Anatolia, da una famiglia di profonda fede ma di umili origini, Mechitar manifestò fin dalla tenera età un ardente desiderio di conoscere Dio e di dedicarsi a una vita consacrata. Si formò sui testi dei Padri della Chiesa e sulle Sacre Scritture, ma fu anche profondamente segnato dalla sofferenza per la divisione tra le Chiese e per il declino spirituale che osservava intorno a sé. Entrato tra i monaci armeni, provò ben presto delusione per la superficialità e la carenza di formazione che prevalevano in molti ambienti. Mosso da un desiderio di rinnovamento spirituale e culturale, intraprese un percorso di riforma che lo condusse a un'intensa vita di preghiera, studio e discernimento.
Anche di fronte a incomprensioni, calunnie e persecuzioni, Mechitar non si lasciò sopraffare dalla disperazione. Egli scorgeva in ogni evento la mano di Dio che lo guidava verso una missione più grande: restituire al monachesimo armeno la purezza delle sue origini e aprirlo alla comunione universale. Dopo anni di viaggi, trovò rifugio prima a Modone, poi a Venezia. Nel 1700 fondò a Costantinopoli la sua Congregazione, e nel 1717 ottenne l'isola di San Lazzaro a Venezia, dove la comunità stabilì la sua sede definitiva. Lì, in un ambiente di silenzio e dedizione allo studio, sorse un centro di preghiera, cultura e dialogo che avrebbe trasformato il volto della Chiesa armena.
Il profilo monastico: contemplazione, sapienza e servizio
Per Mechitar la vita monastica non rappresentava una fuga dal mondo, ma piuttosto una sua trasfigurazione nello Spirito. Amava affermare che il monaco deve essere una luce per gli altri non solo con le parole, ma con la serenità che dimora nel suo cuore. Nelle sue lettere e nei suoi ammonimenti, egli insisteva sull'importanza per il monaco di essere uomo di preghiera, di silenzio e di sapienza, profondamente radicato nella Parola e nella carità fraterna. La sua “Regola”, ispirata a San Benedetto ma profondamente inserita nella tradizione armena, proponeva un equilibrio armonioso tra studio e contemplazione, disciplina e benevolenza, obbedienza e libertà dello Spirito.
Nel monastero da lui fondato, la giornata era scandita dal canto liturgico, dallo studio delle lingue e delle Sacre Scritture, dalla traduzione di testi antichi e dalla trascrizione di preziosi manoscritti. Mechitar era convinto che la bellezza e la cultura potessero essere vie privilegiate di evangelizzazione. Per questo volle che ogni monaco fosse anche un uomo di lettere, un educatore, un messaggero della verità. San Lazzaro divenne così un crocevia di santità e di sapere, dove la preghiera si univa all'attività intellettuale e dove la conoscenza era vissuta come forma di lode a Dio.
Un carisma ecumenico e universale
Tra gli aspetti più luminosi della vita di Mechitar vi è la sua visione ecumenica, scaturita non da un mero progetto diplomatico, ma da un cuore profondamente evangelico. Pur rimanendo saldamente armeno, egli riconobbe nella comunione con Roma la garanzia dell'unità nella verità. Non cercò di latinizzare il suo popolo, ma di purificarne la fede e di rinnovarne la tradizione alla luce della Chiesa universale. Per questo desiderò che i suoi monaci conoscessero sia la teologia orientale sia quella occidentale, imparassero le lingue dei Padri e dei popoli, diventando così ponti viventi tra mondi diversi.
Il suo ecumenismo non fu teorico, ma essenzialmente spirituale: nasceva dal Vangelo e si esprimeva nel servizio, nella cultura, nel dialogo e nell'educazione. Egli vedeva nel sapere e nella carità due strumenti privilegiati per sanare le divisioni. Il suo motto, sebbene non scritto, era: "Chi ama la verità non può odiare nessuno". In un'epoca di sospetti e chiusure, Mechitar incarnò una cattolicità aperta e serena, fondata sulla preghiera e sulla fedeltà. Il suo cuore era interamente rivolto a Cristo e, proprio per questo, era capace di accogliere tutti. Nelle sue lettere si trova spesso l'invito a pregare per coloro che non comprendono e a rispondere all'errore con la mitezza della verità.
L'opera educativa e culturale
L'intuizione pedagogica di Mechitar fu straordinaria. Egli comprese che la rinascita di un popolo passa attraverso la formazione integrale della persona: mente, cuore e spirito. Le sue case monastiche si trasformarono in vere e proprie scuole, dove si insegnavano grammatica, filosofia, teologia, ma anche musica, scienze naturali e arti. I suoi discepoli, fedeli al suo spirito, fondarono tipografie e biblioteche, tradussero i Padri della Chiesa, pubblicarono la Bibbia e i classici armeni, formando generazioni di giovani. In tal modo, i Mechitaristi contribuirono non solo alla rinascita religiosa, ma anche culturale e nazionale dell'Armenia.
Nel pensiero di Mechitar, educare significava condurre l’uomo a scoprire in sé l’immagine divina, e ogni disciplina, anche quella profana, poteva diventare un sentiero verso Dio. La sua pedagogia, intrisa di dolcezza e rigore, combinava la sapienza monastica orientale con il metodo occidentale. Seppe unire la sapienza della Scrittura e la conoscenza umana, ponendo la Bibbia alla destra e i libri della scienza alla sinistra come due ali dello stesso spirito di verità.
L'eredità viva
Dopo la morte di Mechitar, avvenuta a Venezia nel 1749, i suoi discepoli continuarono a diffondere la sua opera in tutto il mondo. Le tipografie mechitariste, le scuole e i monasteri di Venezia e Vienna divennero centri di irradiazione culturale e spirituale per l'Armenia e per l'Europa. Attraverso le edizioni dei testi sacri, le traduzioni, le grammatiche e i trattati morali, la Congregazione mantenne viva l'anima del suo fondatore: unire fede e cultura, preghiera e conoscenza, Oriente e Occidente.
Oggi, a tre secoli di distanza, Mechitar di Sebaste rimane una figura di sorprendente attualità. Il suo invito alla purezza di cuore, al dialogo tra le Chiese e alla formazione integrale della persona risuona come una profezia di comunione in un mondo frammentato. Il suo esempio dimostra che la santità non consiste nell'isolamento, ma nel vivere in Dio per servire gli altri, e che la vera unità scaturisce dalla verità vissuta nella carità. Nel silenzio monastico di San Lazzaro, la sua voce continua a sussurrare a ogni generazione: "Cerca la verità, ama la carità, vivi l'unità."
Oggi come allora, la spiritualità di Mechitar invita la Chiesa e ogni credente a riscoprire il valore del discernimento, della cultura e del dialogo. Egli rimane un modello di fedeltà alla Chiesa e di apertura al mondo, di contemplazione e azione, di umiltà e di coraggio. La sua eredità continua a fiorire ogniqualvolta un cristiano ricerca l'unità nella verità e la luce di Dio nella vita quotidiana. (Di padre Anton, monaco mechitarista)
1) Quale interesse mostra la Chiesa universale per la vita eremitica oggi? Cosa cambia per voi questa nuova attenzione?
Da tempo si assiste ad una certa rinascita dell’eremitismo. Dopo qualche esperienza pioneristica nel mondo monastico benedettino e cistercense (emblematico ad es. è il caso di padre Romano Bottegal, monaco trappista che ha vissuto molti anni eremita in Libano, nel periodo che va dal 1961 al 1978), dal 1983, col nuovo Codice di diritto canonico che prevede nel canone 603 la possibilità di condurre vita eremitica, di fatto o con il riconoscimento da parte del Vescovo diocesano del luogo in cui si vive, sono cominciate a fiorire, prima in modo sporadico ed esiguo poi in modo crescente, vocazioni ed esperienze di eremiti ed eremite.
Parallelamente a questa crescita, molti Vescovi e molte famiglie religiose hanno cominciato ad interessarsi e ad aprirsi a questo particolare dono e chiamata dello Spirito. Di recente anche la Chiesa universale, per la prima volta, ha dedicato un documento a questa presenza e vocazione specifica: La forma di vita eremitica nella chiesa particolare. «Ponam in deserto viam (Is 43,19)». Orientamenti (Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le società di vita Apostolica, 30 dicembre 2021). E infine, in questo anno giubilare 2025, Papa Leone ha ricevuto un folto gruppo di eremiti in udienza particolare l’11 ottobre scorso, rivolgendo loro un breve discorso, molto bello e profondo, sulla loro vocazione.
Questa attenzione e sensibilità verso la vita eremitica che si è manifestata negli ultimi tempi da parte della Chiesa ci aiuta come eremiti a vivere più intensamente e consapevolmente nel cuore della Chiesa. Gli eremiti infatti, distaccandosi in qualche misura dal mondo, si sentono al tempo stesso al margine e al cuore della Chiesa. Al margine perché sovente vivono in disparte, fuori dalla mischia, senza attività, ruoli e impegni specifici nella Chiesa. Al cuore perché cercano di vivere e di custodire l’essenziale invisibile agli occhi che è il cuore pulsante della Chiesa: la lode di Dio, l’ascolto della sua Parola, il silenzio adorante, l’intercessione partecipe, la preghiera incessante.
2) Ci sono momenti di condivisione tra gli eremiti?
Dai primi anni Duemila un gruppo di donne eremite ha cominciato a ritrovarsi ogni due anni per un convegno nazionale di qualche giorno, che poco a poco è cresciuto, coinvolgendo un numero crescente di eremite e anche di eremiti. A questo si sono aggiunte esperienze di esercizi spirituali e di riunione sinodale degli eremiti. Sono tutte occasioni importanti di conoscenza reciproca, di formazione, di dialogo e di confronto tra esperienze spesso molto diverse tra loro. Ogni eremita infatti ha una sua storia, un suo percorso, una sua fisionomia e sensibilità, per cui lo scambio diventa sempre molto ricco e stimolante. Anche i relatori ed i temi trattati, sempre riguardanti la nostra vita, ci aiutano ad approfondire il nostro cammino e sono sempre momenti di rigenerazione e di crescita.
3) Cosa vuol dire per degli eremiti ritrovarsi in gruppo?
Nella zona nord della Toscana (Lucca, Pisa, Livorno, Pistoia, Firenze…) da alcuni anni un gruppo di eremiti molto vario e aperto (tra i 10 e i 20) si ritrova ogni due mesi circa per una giornata di condivisione che ci nutre e ci arricchisce molto. Ci ritroviamo in uno dei nostri eremi, ogni volta diverso, ci salutiamo con gioia, l’eremita che ci ospita propone una riflessione sulla quale ciascuno condivide liberamente la sua esperienza spirituale in un clima di ascolto profondo e rispettoso, celebriamo l’eucarestia, pranziamo insieme, parliamo un po’ e ciascuno ritorna al suo eremo… “diverso”, perché arricchito, stimolato e rinvigorito dall’incontro con gli altri fratelli e sorelle eremiti, dalla loro esperienza e dalla condivisione dell’opera di Dio in ciascuno di noi. Si sperimenta come la diversità, che è molto spiccata tra noi, sia una immensa ricchezza quando è condivisa in un clima di semplicità, di apertura e di rispetto reciproco. Ritrovandoci, si fa esperienza di come la solitudine vera, che non è isolamento ma apertura profonda a Dio e quindi agli altri, genera e cerca la relazione fraterna, sfocia nella comunione che è sempre il fine di ogni cammino spirituale, mentre la solitudine può esserne solo un mezzo e una forma. Soprattutto ogni incontro ci fortifica, ci sostiene, alimenta e arricchisce le nostre motivazioni profonde, ci incoraggia e ci conforta nei nostri cammini personali non sempre facili, come quelli di tutti.
4) Ci parli un po' della vostra esperienza di eremiti in diocesi di Lucca e in Garfagnana?
Nella diocesi di Lucca da qualche anno la presenza di eremiti e di eremite sta crescendo, anche per la sensibilità e la disponibilità del Vescovo, mons. Paolo Giulietti, che crede molto nel valore e nella fecondità di queste realtà. «La Chiesa rinascerà dalle montagne», dice ogni tanto, cioè da luoghi dello Spirito, dove si può fare esperienza di ascolto e di incontro, nuovo e profondo, con Dio e con gli uomini. La Lucchesia, e in particolare la zona montagnosa della Garfagnana, sono da secoli una terra di eremiti. Alcuni luoghi, come l’eremo di Minucciano, di Capraia, di Calomini, sono quasi sempre stati abitati da presenze contemplative. A questi, si affiancano nuove esperienze nei molti eremi naturali di chiese e canoniche sparse - e a volte sperse - tra i monti. Cosicché al momento siamo circa una quindicina tra eremiti ed eremite in questa diocesi. Da due anni ci ritroviamo con il Vescovo per due giorni di convivenza e di condivisione, di preghiera e di dialogo, all’inizio della settimana santa. Ci confrontiamo sulla nostra vita, ma anche sugli orientamenti della Chiesa diocesana, per esserne e sentircene parte secondo la nostra vocazione specifica. Questo momento forte di comunione tra noi e con il Vescovo è fondante perché esprime e alimenta la dimensione ecclesiale diocesana costitutiva della nostra vocazione, in quanto radicata in un tessuto concreto di vita di Chiesa. Mentre i monasteri sono come vene ed arterie del corpo ecclesiale, e per questo sono spesso collegati direttamente alla Chiesa universale, cioè alla Santa Sede, gli eremi sono piuttosto come i capillari inseriti vitalmente nelle diverse piccole parti del corpo della Chiesa. Meno visibili, più nascosti, essi irrorano il tessuto umano ed ecclesiale di cui fanno parte con la grazia delle piccole cose di cui è fatta la loro vita. Credo che sentirsi uniti tra noi e con il Vescovo, fare rete, vivere la comunione pur nella distanza e nella differenza siano condizioni fondamentali per la vitalità e l’autenticità cristiana ed ecclesiale di questa vocazione e per il suo futuro. (Intervista a cura di fr Alberto Maria)
La scorsa estate, in uno dei cineforum in monastero, abbiamo assistito al film "Io Capitano" (2023). Diretto da Matteo Garrone, che ne ha pure curato il soggetto e la sceneggiatura, il film è una produzione che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Tale successo è da ascriversi non solo all’intelligenza generale del setting cinematografico, ma anche, credo, alla verità di un tema tristemente noto ed attuale: il viaggio, drammatico e brutale, che numerosi africani - siano essi ragazzi, bambini, donne e/o uomini - intraprendono verso l’Europa in cerca di una vita migliore. Nella fattispecie il film narra di due adolescenti senegalesi, Seydou (interpretato da Seydou Sarr, Premio Marcello Mastroianni come miglior attore emergente) e del cugino Moussa (Moustapha Fall), che lasciano la loro casa a Dakar e - spinti dall'ingenuità e dal desiderio di realizzare le proprie aspirazioni artistiche ed economiche - affrontano il loro viaggio verso la Sicilia. La loro iniziativa porta con sé tristi esperienze: 1) la fatica di attraversare il deserto del Sahara con i suoi pericoli naturali e i trafficanti di esseri umani che disumanizzano in cerca del solo profitto; 2) la conoscenza degli orrori perpetrati nei centri di detenzione in Libia; 3) infine, il toccare con mano, dopo un enorme carico di sofferenza, il rischio della traversata del Mediterraneo a bordo di un barcone.
Seydou e Moussa, seppur cugini e amici, hanno caratteri differenti: Seydou è più riflessivo e prudente. È attento agli altri ed ha una buona dose di sensibilità, come si può osservare dalle scene in cui intesse una relazione protettiva con la sorellina Venus. Inoltre è un giovane attento agli elementi rituali e simbolici della propria cultura africana: è lui infatti che chiede a Moussa di recarsi dallo stregone per impetrare un “parere” favorevole e il “permesso” di viaggiare dagli antenati, i defunti che sorvegliano il clan. Sebbene sia molto legato alla madre, riesce a fare un gesto di allontanamento solo per il desiderio di un futuro migliore, un futuro da cantante; ma la madre è sempre con lui e la vede come “trasposta” in diversi momenti del suo viaggio (come ad esempio nella donna anziana che soccorre nel deserto e rivede in sogno dopo la morte).
Moussa, di contro, è impulsivo e avventuroso. Il suo personaggio non è delineato dal regista nella sua singolarità tanto quanto Seydou, ma diviene rappresentativo di quell’altra dimensione del mondo giovanile africano: il desiderio di riscatto sociale ed economico, il desiderio di una vita realizzata e “importante” così come “vedono” e sognano nei modelli idealizzati che giungono loro dall’Europa.
Il loro legame di profonda e solidale amicizia, ma anche tutta la cultura e le relazioni che questi due giovani portano con sé, sono la chiave di lettura per comprendere il messaggio che Garrone ha voluto lasciarci. Ovvero non solo raccontare una vicenda - quella dei migranti - vista da fuori, dallo sguardo occidentale. Desiderava narrare una vicenda dal di dentro, dal punto di vista dei migranti. Lo dice lo stesso Autore in un’intervista: “Ho messo la macchina da presa dalla loro angolazione per raccontare questa odissea contemporanea dal loro punto di vista”. Questa angolazione rovescia la prospettiva mediatica e politica occidentale, che tende a rappresentare i migranti come "fenomeno" o "problema", raramente come individui, persone con sogni, legami e storie, con una cultura ricca ed importante, con un bisogno profondo che li spinge a cercare vita altrove.
Garrone ha lavorato a stretto contatto con ragazzi africani che hanno compiuto realmente il viaggio, coinvolgendoli attivamente nella sceneggiatura e nelle riprese. Questo ha garantito alla pellicola un'autenticità visiva e linguistica (il film è prevalentemente in wolof, arabo e francese) che ha permesso di focalizzare l'attenzione sulla vulnerabilità umana e sul coraggio dei singoli personaggi.
Mi sono chiesto più volte in questi mesi quale possa essere il pensiero, l’insegnamento da custodire, per noi monaci, dopo aver assistito a questo film, per non lasciarlo passare invano nel nostro mondo interiore. In prima istanza risuona dentro la prospettiva offerta da papa Francesco alla Chiesa, il quale si è interessato moltissimo del fenomeno migratorio. Il Papa defunto ci ha sempre portati ad una lettura teologica del fenomeno migratorio, ribadendo che, per un cristiano, il migrante non è solo un "fratello o una sorella in difficoltà", ma è "Cristo stesso che bussa alla porta" nella sua veste da povero. Questa identificazione è un monito costante per non dimenticarci dei poveri come luogo di rivelazione della cura di Dio.
Riconosco, poi, un significato sociale e culturale, che sopra ricordavamo: aiutare la nostra cultura europea ed occidentale ad uscire dall’indifferenza per andare verso l’altro, soprattutto se povero, per accogliere la visione della solidarietà, dell’umanità globalizzata nel rispetto.
Infine colgo in questo film l’invito a fermare in noi il male. Parlo di quel male che ci impedisce di essere generosi e/o deturpa le nostre relazioni. Io Capitano invita a custodire le relazioni con gli ingredienti della benevolenza, della cura, del mettersi in gioco per gli altri, con l’attenzione alle fatiche delle persone che ci vivono accanto. Seydou, nelle scene finali del film, durante il viaggio in barcone, non smette di spendersi per il suo equipaggio, pilotandolo sino alla consumazione di tutte le forze fisiche. Il suo grido finale, di liberazione e di gioia, è il grido di chi si è offerto con responsabilità per salvaguardare la vita degli altri: “Sono io il capitano, il capitano! Sono tutti salvi, tutti salvi!”. (Di fr Pierantonio)
Sal 81, 1 Salmo. Di Asaf
Dio presiede l'assemblea divina, giudica in mezzo agli dèi:
(2) "Fino a quando emetterete sentenze ingiuste e sosterrete la parte dei malvagi?
(3) Difendete il debole e l'orfano, al povero e al misero fate giustizia!
(4) Salvate il debole e l'indigente, liberatelo dalla mano dei malvagi!".
(5) Non capiscono, non vogliono intendere, camminano nelle tenebre; vacillano tutte le fondamenta della terra.
(6) Io ho detto: "Voi siete dèi, siete tutti figli dell'Altissimo,
(7) ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti".
(8) Àlzati, o Dio, a giudicare la terra, perché a te appartengono tutte le genti!
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Vangelo di Giovanni (Gv 10, 22-24. 31-39)
(22) Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. (23) Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. (24) Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: "Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente". (…)
(31) Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo. (32) Gesù disse loro: "Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?". (33) Gli risposero i Giudei: "Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio". (34) Disse loro Gesù: "Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? (35) Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio - e la Scrittura non può essere annullata -, (36) a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: "Tu bestemmi", perché ho detto: "Sono Figlio di Dio"? (37) Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; (38) ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre". (39) Allora cercarono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.
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C'è un momento di altissima tensione nel Vangelo di Giovanni, un vero e proprio processo che si svolge a Gerusalemme durante la Festa della Dedicazione del Tempio (Hanukkah). La folla dei Giudei, che l’evangelista descrive con un verbo eloquente (“lo circondarono”) per dire la loro aggressiva intenzione, stringe il cerchio attorno a Gesù, un'allusione questa che richiama il giusto dei salmi, come Davide, accerchiato da nemici (cfr Sal 16, Sal 17, Sal 21, Sal 117). Il clima è ostile e l’interrogazione decisa: “Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”. Gesù risponde ai Giudei con una sfida, oltrepassando l’identificazione col Messia per affermare la sua identità divina: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. La reazione dei Giudei è allora furiosa: raccolgono pietre per lapidarlo, accusandolo di blasfemia. Il loro capo d'accusa è inappellabile: “Perché tu che sei uomo ti fai Dio”. Davanti a questa sentenza di morte, Gesù non si intimorisce. Anzi, egli continua a sostenere la propria divinità e lo fa utilizzando proprio la Scrittura dei suoi avversari. Ed è qui che entra in scena un testo relativamente oscuro: il Salmo 81 (82 nella numerazione ebraica).
La difesa del Cristo: la logica “a fortiori”
Gesù, infatti, risponde alla violenza dei suoi accusatori con una domanda retorica, che è un'introduzione unica ed originale ad una citazione biblica esplicita: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi?” (Gv 10,34, citando Sal 81,6). L'uso che egli fa del Salmo 81 è un capolavoro esegetico, basato su un metodo di ragionamento tipicamente giudaico, noto come a fortiori o va-chomer (che significa “leggero e pesante” o “quanto più”). Questo principio logico, attribuito a Rabbì Hillel, si può formulare così: ciò che si applica in un caso meno importante si applicherà certamente in un caso più importante.
L'argomentazione di Gesù si sviluppa in questo modo: a) la premessa (il caso “leggero”): la Scrittura (che “non può essere annullata”) chiama “dèi” (theous) coloro “ai quali fu rivolta la parola di Dio”; b) la conclusione (il caso “pesante”): se la Parola di Dio conferisce un titolo così alto a semplici mortali che l'hanno ricevuta, allora “colui che il Padre santificò e mandò nel mondo” (cioè Gesù stesso, che è la Parola fatta carne) a maggior ragione ha la legittimità di rivendicare il titolo divino.
In pratica, Gesù smonta l'accusa di bestemmia che gli viene rivolta dichiarando: “non sto citando idee mie, ma sto affermando la vostra stessa Legge applicando un’esegesi che voi stessi, che vi vantate di saper interpretare la Scrittura, dovreste non solo conoscere, ma anche assumere per la vostra condotta di vita”. Egli, cioè, sta applicando a sé stesso la dignità che la Scrittura già riconosce ai suoi destinatari; se vale per loro, a maggior ragione deve valere per lui.
Il giudizio divino: la condanna a morte degli “dèi”
Per comprendere appieno l'efficacia della difesa di Gesù, dobbiamo guardare al contesto originale del Salmo 81, un testo straordinario che è stato definito dall’esegeta Zenger come la “condanna a morte degli dèi”.
Composto probabilmente in epoca post-esilica, quando la fede monoteista di Israele era ormai matura, il Salmo mette in scena un consiglio divino. Dio presiede un'assemblea di Elohim (gli “dèi”) e li accusa senza appello: “Fino a quando emetterete sentenze ingiuste e sosterrete la parte dei malvagi?” (Sal 81,2). Il peccato capitale di questi Elohim è la loro iniquità: proteggono i potenti e schiacciano i deboli. Così il Salmo stabilisce un principio teologico rivoluzionario: non può essere divino ciò che è disumano. Quindi, un dio che non protegge l'uomo e che non rende giustizia al debole non è un vero dio, ma è destinato a perire come tutti i mortali. Il Dio di Israele, invece, proprio perché caratterizzato dalla benevolenza verso gli uomini, è l’unico vero ed eterno Dio. La sentenza profetica del Salmo è chiara: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell'Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo” (Sal 81,6-7). Si tratta di una netta condanna contro tutte le potenze che usano la religione e il potere per opprimere l’umanità. Asaf, l’autore del salmo, figura liturgico-profetica, propone questa visione originale e potente di condanna a morte degli dèi motivandola con la loro opposizione al bene e alla giustizia, che sono le qualità essenziali del vero Dio.
Al tempo stesso, però, il salmista conserva uno sguardo realistico sulla storia: la prepotenza esercitata dalle varie divinità si protrae nel tempo, perché la convivenza umana è ancora oppressa dall’arroganza idolatrica di cui si fanno forza i potenti (potremmo pensare a quali siano oggi gli idoli che devastano la terra). Per questo il popolo grida: “Risorgi o Dio”, “Àlzati, o Dio, a giudicare la terra, perché a te appartengono tutte le genti!” (v.8). Il popolo continua a supplicare Dio di realizzare finalmente la sua condanna, cioè di rendere giustizia agli oppressi della storia.
Chi sono questi “dèi”?
Finora ho proposto un’interpretazione del salmo 81 seguendo l’esegesi moderna, per la quale gli “dèi” sono le potenze avverse a Dio perché non rispettano la sua creatura, l’uomo, soprattutto quando si trova in una condizione di precarietà e debolezza. Potremmo, però, fare uno sforzo ulteriore per provare a metterci nella testa dei lettori giudaici del primo secolo, cioè del periodo nel quale è vissuto Gesù e Giovanni ha scritto il suo Vangelo. A quell’epoca, il mondo giudaico non pensava più ad una molteplicità di dèi e ad un concilio divino. Allora, dando per scontata l’esistenza di un unico Dio, di chi si parla quando si legge “voi siete dèi”? Le spiegazioni per il termine “dèi”, Elohim, usato in questo salmo sono tre:
per la letteratura apocalittica, si tratta delle potenze angeliche ribelli. Esistono gli angeli buoni che stanno dalla parte di Dio e gli angeli cattivi che sono contro Dio e tra le due parti si svolge un combattimento cosmico. Quelli che si sono messi contro Dio devono essere condannati da un giudice, che potrebbe essere o Melchisedek o l'eletto o il figlio dell'uomo.
Per la letteratura rabbinica, si tratta degli Israeliti in quanto destinatari della Legge sul Sinai. Un detto di Rabbì Iosè, vissuto nel 150 circa, discepolo di Rabbì Achiba, conservato nel Talmud babilonese, dice: “Dio si rivolge agli Israeliti sul Sinai e, avendo ricevuto la parola di Dio, viene detto a loro: siete dèi, siete diventati uguali a Dio, siete figli dell'Altissimo. Però, dal momento che non avete accolto la parola, ma avete tradito la fedeltà, l'alleanza, morirete come ogni uomo”. La lettura rabbinica del salmo pone un'alternativa: se Israele accoglie la parola di Dio diventa figlio di Dio e ha la vita, ma se rifiuta la mentalità di Dio muore come tutti gli uomini.
Per una terza linea interpretativa, quella di Giovanni e poi dei padri della Chiesa, si tratta dei giudici e dei capi iniqui: gli Elohim sono gli uomini potenti. Dio si alza nell'assemblea dei potenti della terra ed emette una sentenza contro di loro. Alla base di questa interpretazione sta ancora la Torah. All'inizio di Dt 1, 16-17, Mosè racconta l'istituzione dei giudici: “Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande, non temerete alcun uomo perché il giudizio appartiene a Dio”. Se il giudizio appartiene in ultima istanza a Dio, allora chi esercita il ruolo di giudice tra gli uomini tiene il posto di Dio, per cui può essere definito Dio. Perciò è necessario che coloro che svolgono tale ruolo lo facciano secondo il criterio di Dio, che è la benevolenza verso l'uomo, in particolare verso il debole.
Il compimento cristologico: il vero pastore
L’evangelista Giovanni utilizza il Salmo 81 per elaborare ironicamente il suo racconto di giudizio: coloro che vogliono condannare Gesù per blasfemia sono i veri colpevoli e sono giudicati con una sentenza di morte. Per arrivare a formulare il suo giudizio, Giovanni collega la figura degli Elohim, cioè degli uomini potenti, a quella del pastore descritta in Ezechiele 34. Qui è scritto che Dio condanna i pastori (i capi) del popolo che hanno sfruttato il gregge e che non hanno aiutato i deboli. Dio promette: “Io stesso cercherò le mie pecore” e “susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide”.
Non è un caso che Giovanni ricorra al Salmo 81 proprio all’interno del capitolo decimo, quando Gesù formula il discorso del pastore esemplare, usando proprio le immagini di Ezechiele 34. Che cosa rimprovera Dio ai pastori del suo popolo? “Non avete cercato le pecore perdute, non avete curato quelle malate, quelle deboli, non avete aiutato gli oppressi, i deboli, ma le avete sfruttate” (cfr Ez 34,4-5). Si tratta di un giudizio divino contro i pastori empi. In Ez 34 troviamo anche due affermazioni che possono sembrare contraddittorie, ma che nella lettura giovannea diventano complementari. Ai versetti 15-17 Dio dice: “Io stesso cercherò le mie pecore, io stesso condurrò le mie pecore al pascolo, giudicherò fra pecora e pecora”. Dio in persona si fa pastore. Ai versetti 23-24 Dio annuncia: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore”. “Susciterò”: è lo stesso verbo della risurrezione. Possiamo perciò leggere: “Farò risorgere il mio servo Davide come pastore”.
Da questi elementi si può comprendere perché Giovanni abbia formulato la prima parte del capitolo decimo leggendo Ezechiele 34 come una profezia di Gesù pastore, che risorge per portare al pascolo le sue pecore e per giudicare fra l'una e l'altra. La seconda parte del capitolo decimo, ambientata nella Festa della Dedicazione del Tempio, è invece stata elaborata da Giovanni a partire dal Salmo 81. Gesù si propone come il vero Davide, il servo di Dio, il pastore per eccellenza, che merita a pieno titolo l'attributo di figlio di Dio, perché, al contrario di tutti gli altri potenti che non hanno fatto il loro dovere di pastori, è pronto a dare la vita per le sue pecore affinché possano vivere.
Così la sentenza del Salmo 81 si capovolge: i Giudei, giudici iniqui che circondano Gesù per lapidarlo, sono in realtà i condannati a morte, perché sono coloro che “non capiscono, non vogliono intendere, camminano nelle tenebre” (v. 5). Gesù, al contrario, si rivela veramente Dio perché incarna lo stile di Dio. La sua pretesa di essere Figlio dell’Altissimo, Figlio di Dio, non è dunque una bestemmia, ma è la piena realizzazione della giustizia divina. Gesù è Dio perché è colui che, a differenza dei giudici del Salmo 81, opera la benevolenza e la giustizia verso l'uomo, portando a compimento il progetto divino. (Di fr Davide Castronovo)
Nei primi giorni di agosto è passato da noi un monaco coreano, fr Isaac, del monastero di Waegwan, e due monaci cileni, il priore dom Lorenzo e un suo confratello, dom Esteban, del monastero di Las Condes a Santiago del Cile.
Martedì 5 agosto, padre Biagio della comunità di Praglia e il nostro fratello Roberto hanno partecipato alla Messa nella chiesetta di Pradecolo (situata poco sopra il nostro monastero) per la memoria della Dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore, conosciuta popolarmente come “Madonna della neve”. Lo stesso giorno, fr. Alberto Maria si è recato a Bose per partecipare alla professione di sorella Chiara, avvenuta durante la veglia della festa della Trasfigurazione del Signore.
Martedì 12 agosto abbiamo salutato don Nicola Porcellini, nostro parroco fino a pochi mesi fa, che ora lascia in modo definitivo il decanato di Luino per trasferirsi nella comunità pastorale di Sesto Calende.
Mercoledì 13 agosto fr Davide è partito per l’Ungheria per raggiungere il monastero di Bakonybel, dove ha partecipato alla professione solenne di fr Jakub Testa (originario di Roma) tenutasi sabato 16 agosto.
Lunedì 18 agosto il nostro priore Andrea e fr Adalberto sono stati ad Agra per prendere parte all’accoglienza della comunità monastica ortodossa che si è insediata nel complesso dove fino a pochi mesi fa vivevano le Monache Romite. Erano presenti mons. Walter Magni, Vicario Episcopale per la Vita consacrata, e mons. Luca Bressan, Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale, insieme a due vescovi ortodossi del Patriarcato di Mosca.
Giovedì 21 agosto abbiamo avuto una serata con Angela di Nardo che ha fatto una lettura di alcuni testi di Madre Cécile de Bruyère, una monaca francese vissuta nella seconda metà del XIX secolo. La serata è stata preceduta da una presentazione di fr. Alberto Maria svoltasi il giorno martedì 19.
Da lunedì 1° a venerdì 5 settembre, fr Roberto ha partecipato al Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa organizzato dalla comunità monastica di Bose che quest’anno è stato dedicato alla figura di sant’Antonio il Grande, padre dei monaci. In questa circostanza, gli è stato chiesto anche di guidare un gruppo di lettura su alcuni testi di questo grande monaco, testi da lui scelti e presentati. Fr Adalberto lo ha raggiunto solo l’ultimo giorno per prendere parte alla giornata conclusiva.
Sabato 6 settembre abbiamo ospitato il gruppo dei “Laudesi” per una rappresentazione intitolata: “Passio. Azione attorno alla liturgia popolare in Italia”. Sono stati eseguiti – o meglio, messi in scena – canti della tradizione popolare italiana provenienti da vari repertori. La performance è stata senza dubbio suggestiva, intensa e coinvolgente. Dopo cena abbiamo avuto poi uno scambio fraterno con i membri della compagnia.
Da lunedì 8 a venerdì 12 settembre i nostri fratelli Roberto e Ambrogio hanno raggiunto il monastero di Camaldoli per partecipare alla Settimana Monastica dedicata quest’anno a “La cella nella Tradizione Monastica”.
Sabato 13 settembre, vigilia della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il nostro fratello Emanuele ha emesso la sua professione temporanea durante i primi Vespri di questa festa. È stato un bel momento, vissuto con semplicità e letizia.
Lunedì 15 settembre, fr. Alberto Maria si è recato ad Altare (Savona) con il gruppo del DIM (Dialogo Interreligioso Monastico) per fare un’esperienza presso l’Ashram dedicato a Matha Gitananda. Un bellissimo momento di incontro con monaci di diverse fedi.
Dal 22 al 24 settembre abbiamo avuto delle giornate di formazione sui voti religiosi con don Marco Vitale, presbitero della diocesi di Roma e membro dello staff della formazione presbiterale.
Venerdì 26 settembre i nostri fratelli Davide e Alberto Maria hanno partecipato alla riunione della Commissione Ecumenica diocesana che si è tenuta nei locali della Curia di Milano. Poi, in serata, si sono fermati alla “Scuola del Beato Angelico” per l’inaugurazione della mostra dell’artista saronnese Ferdinando Greco curata da fr. Alberto Maria e sr. Celina Duca.
Da lunedì 29 settembre a sabato 4 ottobre fr Emanuele e fr Adalberto hanno partecipato al corso di formazione dell’inter-noviziato tenutosi quest’anno al monastero di Bose sul tema: “Conflitti e tensioni in comunità”.
Venerdì 3 ottobre i nostri fratelli Andrea, Nicola, Giovanni e Roberto hanno partecipato al funerale di Debora Amoruso, una giovane di 28 anni, figlia di Anna e Franco, che sono stati gestori del Rifugio Campiglio (situato appena poco sopra il monastero) negli anni in cui la comunità si era appena stabilita a Dumenza. Le esequie si sono svolte nella chiesa parrocchiale di Motte, una frazione di Luino.
Sabato 11 ottobre abbiamo avuto la visita dell’abate preside emerito Thierry Portevin, il quale, trovandosi in Italia nel monastero di Novalesa, prima di ritornare in Francia nel suo monastero di origine, En Calcat, ha voluto venire a visitarci.
Domenica 12 ottobre c’è stato incontro con il gruppo degli amici della “Piccola Lavra”. A tema del confronto che si è svolto nel pomeriggio c’era il discernimento a partire dal testo di Dt 30.
Lunedì 13 ottobre abbiamo avuto la visita dell’abate dell’Abbazia di Einsiedeln (Svizzera), p. Urban, il quale di passaggio dall’Italia ha voluto fermarsi un giorno da noi.
Giovedì 23 ottobre c’è stata la serata con Paolo Romagnoli, il quale ha presentato la sua raccolta di poesie appena pubblicata dal titolo La sostanza delle cose (edito da SpazioGemma).
Venerdì 24 ottobre il nostro priore Andrea e fr. Adalberto sono andati a Milano, in Curia Arcivescovile, per partecipare al Tavolo sulla Vita religiosa. Fr Alberto Maria tiene invece una conferenza sul monachesimo irlandese presso Ra Cà dur Barlich di Varese. Un momento molto partecipato, soprattutto da giovani.
Da martedì 28 a giovedì 30 ottobre i nostri fratelli Pierantonio e Alberto sono andati all’isola San Giulio, nel monastero benedettino “Mater Ecclesiae”, per l’incontro dei foresterari. Il tema di quest’anno è stato “Le relazioni con gli ospiti che giungono in monastero, in particolare attraverso le forme dell’accompagnamento spirituale e del colloquio personale”. L’incontro è stato guidato dal pastore battista Angelo Reginato.
Venerdì 31 ottobre, i nostri fratelli Nicola ed Emanuele hanno partecipato alla professione temporanea di sr. Maria Gabriella delle Monache Benedettine dell’Adorazione Perpetua del Ss. Sacramento di Milano, da poco trasferitesi in via Pier Francesco Cittadini.
Venerdì 7 novembre fr Adalberto e fr Emanuele hanno partecipato all’incontro tra seminaristi e membri degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica in formazione iniziale tenutosi al Seminario Arcivescovile di Venegono Inferiore. Il tema affrontato è stato “L'anno liturgico fonte e culmine di ogni cammino formativo", sul quale l’arcivescovo Mario Delpini ha tenuto una meditazione.
Domenica 9 novembre il nostro fratello Adalberto è partito alla volta dell’Ungheria per raggiungere il monastero benedettino di Bakonibel, dove ha condotto la visita canonica alla comunità. Si è trattenuto in quella sede fino a domenica 16, visitando anche il monastero di Pannonhalma.
Sabato 22 novembre abbiamo avuto la giornata di dialogo con p. Luciano Mazzocchi, missionario saveriano che ha passato molti anni in Giappone a diretto contatto con la tradizione monastica buddista. Il tema affrontato è stato: «Vangelo e Zen in dialogo. Dall'intimo del limite il vagito della fede».
Da domenica 23 a sabato 29 novembre abbiamo partecipato agli esercizi spirituali predicati dal nostro arcivescovo mons. Mario Delpini a tutte le comunità monastiche (femminili e maschili) presenti in diocesi. Il tema affrontato dall’arcivescovo riprendeva il suo motto episcopale: «La terra è piena della sua Gloria (Is 6,3)». Dopo le Romite Ambrosiane del Sacro Monte di Varese, siamo stati il secondo monastero visitato dall’arcivescovo, il quale si è fermato da noi a pernottare domenica notte per poi ripartire lunedì mattina dopo aver tenuto la prima meditazione del corso di esercizi. È stata una bella esperienza di comunione tra fratelli e sorelle che vivono in fondo lo stesso cammino di ricerca di Dio nella forma monastica. Seppur vissuta nella modalità online è stata comunque un’esperienza da tutti apprezzata, merito anche del nostro arcivescovo che ha condotto le sue meditazioni con molta semplicità e sapienza, offrendo a tutti una parola illuminata e incisiva. (Di fr Giovanni Lamperti)