“Allora adesso siete un monastero green!”
Questa e simili espressioni stanno cominciando a circolare tra gli ospiti e gli amici che recentemente sono passati in comunità. Ciò è dovuto al fatto che si stanno concludendo i lavori di riqualificazione energetica programmati per quest’estate, che sono stati svolti con competenza, velocità, collaborazione e anche rispettando lo stile e l’ambiente monastico. Rarissime e puntuali sono state le attività davvero rumorose, non ci si è quasi accorti di avere in casa operai e tecnici molto indaffarati...
Nel numero 38, del dicembre 2024, di questa newsletter, era stato auspicato e programmato un intervento che ponesse rimedio allo stato ormai terminale delle caldaie a legno e gasolio che per vent’anni hanno provveduto a riscaldare i nostri ambienti e fornirci l’acqua calda sanitaria. Avvalendoci delle competenze di Sinergia, una azienda di Vicenza particolarmente specializzata in soluzioni ecocompatibili per il riscaldamento, e appoggiandosi poi alla vicina Green Calor di Luino e alle sue maestranze per la realizzazione effettiva del progetto, abbiamo accolto e aderito alla proposta di una riqualificazione combinata, che ora vede la triplice “concorrenza” di una caldaia a legno cippato, di tre pompe di calore e di due serie di pannelli fotovoltaici posizionati sui lati sud ed est del tetto. Mancano delle piccole rifiniture legate alla regolazione delle temperature nei singoli ambienti e alcune certificazioni tecniche, ma ormai il grosso del lavoro è terminato e l’impianto è già in funzione.
Entrando un po’ nel dettaglio, nella precedente centrale termica sono stati posizionati due “puffer”, due grandi serbatoi da 2500 litri ognuno dove viene immagazzinata l’acqua calda e mantenuta in temperatura per ottemperare alle richieste dell’impianto, un terzo serbatoio della medesima capienza insieme a una pompa di calore sono stati posti nel locale esterno della lavanderia mentre la caldaia insieme al deposito di legno cippato (frantumato in piccoli pezzi) sono stati collocati dove c’era la falegnameria. Le tre grandi – ma silenziose – pompe di calore, che verranno utilizzate soprattutto nelle mezze stagioni e che si “nutriranno” dell’energia elettrica prodotta dai pannelli fotovoltaici, sono all’esterno, sul retro della casa, con un impatto visivo rispettoso dell’ambiente e comunque ordinato. Minimi sono stati i lavori edili, molto più significativi quelli idraulici ed elettrici ma tutti svolti da professionisti qualificati e che hanno anche saputo integrarsi felicemente con le dinamiche e i tempi di una comunità monastica. Particolare non secondario: tutto l’impianto può essere gestito – ed effettivamente lo è – a distanza, mediante un programma informatico che agisce da remoto. La dimensione meccanica-manuale più significativa sarà lo sversamento in tempi programmati del legno cippato nel locale adiacente alla caldaia. Abbiamo anche provveduto a bonificare la cisterna del gasolio precedentemente impiegato e, a completamento di tutta questa attività, si sta procedendo anche ai lavori che riguardano l’anello antincendio che circonda la casa, ottenendo anche il certificato di prevenzione incendi.
Nel citato editoriale dello scorso anno si prevedeva “un cantiere prolungato” (p. 5): siamo felici di essere stati smentiti su questo aspetto; sono infatti stati rispettati i tempi e questo ci permette di sperare di poter ottenere anche dei significativi incentivi che andrebbero ad alleggerire la spesa complessiva dell’opera.
Papa Leone XIV, sulla scia di papa Francesco e della sua Laudato si’, ci esorta affinché «l’ecologia integrale sia una scelta sempre più condivisa». Questo nostro progetto energetico vuole essere un piccolo segno di collaborazione al recupero della centralità della salvaguardia del creato per la vita di tutti gli uomini. Speriamo possa essere contagioso. (Di fr Andrea Oltolina, priore)
In questa rubrica si è già provato a dire qualcosa riguardo al Giubileo che quest’anno la Chiesa offre alle donne e agli uomini di tutto il mondo, un’occasione «per favorire la conoscenza e l’incontro con il Signore Gesù, instaurando un virtuoso cammino di conversione e bellezza» (Newsletter n. 38/Dicembre 2024, p. 3). Il tema di questo Giubileo è “Pellegrini di speranza”, una speranza che non delude, secondo l’espressione di Paolo nella lettera ai Romani (5,5), perché si appoggia sulla fedeltà dell’amore di Cristo e apre a un rinnovamento delle relazioni interpersonali e collettive.
Parto dal primo termine, pellegrino. I monaci che seguono la Regola di san Benedetto fanno voto di stabilità, ossia si impegnano a condividere la loro esistenza con un determinato gruppo di fratelli per tutta la loro vita. La ragione profonda di questa scelta è vivere con radicalità l’amore fraterno, in una gara di obbedienza reciproca – come scrive san Benedetto nello splendido capitolo 72 della sua Regola –, evitando di girovagare fuori del monastero o di trovare giustificazioni esterne per non affrontare i problemi relazionali che possono insorgere nella vita comune. La stabilitas loci, la permanenza in un determinato luogo, aiuta in modo evidente il raggiungimento di tale finalità. Ora, tutti noi sappiamo che il pellegrinaggio è proprio il recarsi da un posto a un altro, da un luogo a un altro, ritenuto carico di richiami spirituali e religiosi che aiutino il fedele a “ricalibrare” la propria sequela evangelica. Fin dall’antichità il pellegrinaggio cristiano per eccellenza è sempre stato quello verso la Terra Santa, il luogo dove Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena; successivamente Roma ha acquisito un ruolo sempre più centrale a motivo della Santa Sede e del luogo del martirio dei grandi discepoli Pietro e Paolo; a discesa: santuari, abitazioni di santi e sante, luoghi ove sono avvenuti fatti inspiegabili, miracolosi. Ma centrale, anche più del raggiungimento della meta ambita, era soprattutto il cammino, faticoso e impegnativo, se non addirittura pericoloso, che tale spostamento comportava: un cammino che era propedeutico e sostanziale per la purificazione dell’anima del pellegrino e per nutrire l’attesa di un incontro lungamente coltivato nel tempo, e che produceva una progressiva dilatazione del cuore verso un amore sempre più autentico e gratuito. Come possono dunque i monaci vivere questo pellegrinaggio, visto l’impegno di stabilità cui si sono votati?
Non entro in merito alla modifica sostanziale che oggi gran parte dei pellegrinaggi ha subìto, trasformandosi spesso in meri viaggi turistici, o all’impegno economico che spesso questi possono comportare: sono oggettivamente aspetti secondari rispetto alla finalità principale, che resta in ogni caso la conversione. Ecco dunque in quale senso è possibile anche per un monaco essere pellegrino in questo tempo giubilare: attraversare l’ordinarietà della propria esistenza con un pellegrinaggio interiore – i padri della chiesa si scagliavano duramente verso chi sostenesse che solo recandosi a Gerusalemme era possibile conseguire degli autentici e duraturi passi di trasformazione della propria vita – che individui delle tappe e una meta spirituale autentica. Sarebbe bello che ognuno di noi, monaco oppure no, giungesse al termine di questo tempo di grazia, al di là di un itinerario geografico verso un luogo sacro o meno, con almeno la tensione verso un frutto dello Spirito: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Questo sarebbe essere autenticamente pellegrini!
Ma anche qui è necessaria una importante consapevolezza: a questa dimensione di trasfigurazione della propria esistenza si potrà giungere solo e soltanto nella misura in cui terremo fisso, nel nostro camminare attraverso le pieghe della vita, lo sguardo su Gesù (cfr Eb 12,2) e ci lasceremo sempre più affascinare dal suo stile, interrogare dalle sue parole, mettere in crisi dai suoi gesti. Solo con una preghiera umile e costante potremo continuare il cammino nella gioia e nella verità.
La speranza. Come mai proprio la speranza è stata messa al centro di questo Giubileo? Che cosa si desidera far crescere e, al contrario, combattere?
Numerose sono le speranze che alimentano i nostri desideri più immediati e spontanei: poter avere una vita bella, ricca di relazioni e salute, aperta al futuro e capace di tener conto della sapienza di coloro che sono venuti prima di noi, che fiorisce aderendo alla realtà e genera nuova linfa per le generazioni future. Più in profondità: speranza che la giustizia sia la dimensione che governa il mondo, che la guerra venga ripudiata come strumento per regolare le relazioni tra le nazioni, che il cibo sia distribuito in modo sufficiente per tutti e che l’umanità sappia affermare con coraggio e perseveranza il valore di ogni uomo, al di là degli errori che questi può aver compiuto, che la nostra casa comune sia rispettata e custodita nella sua straordinaria unicità, che esista una comunicazione rispettosa della verità e non “drogata” a fini economici e di potere, che ogni essere umano possa godere di piena libertà nella sua dimensione religiosa…
Potremmo aggiungere ancora tante forme di speranza. Oggi forse però ci viene chiesto di lottare non tanto contro la disperazione, ossia la mancanza di senso, quanto contro l’indifferenza. La nostra società ha perso la passione per ricercare un compimento, una pienezza, e si adegua, si adatta, si rinchiude – e viene costretta a rinchiudersi! – nel proprio piccolo mondo, perdendo lo sguardo ampio, universale e autentico che ogni essere umano porta nel cuore. Sembra che nulla possa cambiare contro il mondo della finanza, della tecnica, della violenza e le nuove generazioni stanno rischiando di avere una prospettiva di vita molto più fragile, insicura, incerta rispetto ai propri genitori e a chi ha camminato prima di noi su questa Terra. Le passioni tristi, la depressione prima tra tutte, colorano il nostro tempo in modo importante.
Siamo allora invitati a non arrenderci, a saper combattere contro l’apparente inevitabilità negativa che ci sovrasta, a ridare nuove motivazioni al nostro agire nonostante le ferite e i fallimenti sperimentati. Non siamo chiamati ad essere supereroi o a negare i nostri limiti, ma ad imparare dai nostri fallimenti trasformando le nostre sconfitte in opportunità di crescita e verità. Basta con l’apparenza e il formalismo!
«I monaci si prevengano nello stimarsi a vicenda, sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali, nessuno cerchi il proprio vantaggio ma quello degli altri, amino con cuore casto tutti i fratelli, temano Dio con trasporto d’amore, ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna» (RB 72). Ecco il mondo nuovo, riconciliato e libero, che Benedetto prospetta al monaco. Ma è uno stile che ognuno può “importare” nella propria vita per rinnovarla nella verità. Il Signore Gesù, che ha sperato che la vita non sarebbe stata divorata dalla morte e ora vive oltre la morte – la quale annienta ogni nostra possibile speranza, anche buona – ci attende e cammina accanto a noi nel nostro pellegrinaggio terreno verso la pienezza di una vita non meno che eterna.
Come ha scritto sr. Simona Brambilla, neo eletta prefetto del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, riprendendo un adagio della tradizione patristica applicato alla Chiesa in riferimento alla luce di Cristo, «la vita religiosa è come la luna, non acceca e non “spegne” le stelle; è sinodale, brilla e lascia brillare, è umile. La luna si vede di notte e il nostro tempo può essere considerato notte». Davvero speriamo che la vita monastica, nel suo discreto porsi accanto a ogni essere umano, nella chiesa, a favore dei più poveri, possa offrire una luce lunare autentica, che apra all’incontro con la luce piena del Signore Gesù. È l’augurio che ci facciamo reciprocamente affinché questo Giubileo sia davvero una trasformazione della vita di tutti noi. (Di fr Andrea Oltolina, priore)